L’essenza della politica

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Quali sono le componenti della democrazia perché non degeneri? Solo quelle che sono essenziali perché essa sia reale e che siano concorrenti affinché risulti compiuta. Le fondamentali sono almeno quattro.

Visibilità e trasparenza. Niente riserve mentali né progetti sottesi. Ciò che è democratico deve essere socialmente visibile e sarà tale se sarà trasparente. La visibilità di cui parliamo non si riferisce all’apparenza ed alla superficie della prassi ma a tutto il suo spessore e a tutto il suo processo. Per questo il Piano di Rinascita della P2 fu un progetto antidemocratico: non solo perché ispirato da principi autoritari e discriminatori ma anche perché era occulto, nelle sue finalità, nei suoi adepti e, soprattutto, perché concepito come progetto «contro». Da qui la condanna sia del Piano sia dei suoi affiliati.
Medietà. Se le ragioni dell’appartenenza variano tra i soggetti, la comunanza che le concerta si realizza attraverso la pratica della mediazione. Le differenze sono il sale della democrazia e la loro cristallizzazione la mortifica impedendo il suo compimento. L’interscambio e la complementarietà fondano l’assetto democratico di un popolo e ne assicurano i caratteri di nazione. In democrazia il medium non consiste nella rinunzia reciproca tra le parti a dei diritti riconosciuti, ma nella tensione «oltre» i rispettivi interessi: un appuntamento con le novità verso modelli che trascendono la caducità e realizzano gli ideali della convivenza pacificata.

Pacificazione. Gli andamenti sociali si articolano attraverso l’intreccio tra regressione ed avanzamento che non sempre sono omogenei. Ora si producono benefici e, al tempo stesso, degrado; ora si registrano incrementi e contemporaneamente deficit. Spesso la dialettica si trasforma in conflitto tra i singoli, tra le classi, tra i popoli con l’effetto che essa ci riconsegna un vincente e tutti gli altri soccombenti. La pacificazione è azione dinamica permanente, da assicurare e difendere contro gli sbarramenti e le stratificazioni degli assetti sociali standard ossidati. Solo così una contestazione sui diritti, attraverso le lotte sindacali, può essere vantata come partecipazione democratica.

Tensione utopica. La politica è sicuramente il «governo della realtà» ma a condizione che giustizia e libertà ne siano coefficienti fondamentali. È evidente che l’una e l’altra siano costruzioni dinamiche. Il tendere ad esse ci fa stimare i livelli raggiunti come obiettivi insufficienti e la proiezione dell’agire verso l’utopia come modello perfettibile, dai traguardi desiderabili, proprio perché raggiungibili.

In America Latina la Teologia della liberazione ispirò la tensione alla speranza della città dell’uomo verso beni più distribuiti, con i poveri affrancati, le ingiustizie arginate, il dispotismo rifiutato. La comunità ecclesiale non avrebbe dovuto sottrarsi alla lotta per la trasformazione del potere: l’azione ecclesiale avrebbe così realizzato l’annuncio e l’evento «pasquale». Non si era mai registrato nella storia delle comunità, escluso quelle proto-cristiane delle domus, che esperienze di base dichiarassero politicamente corretta la tensione al «non-ancora» e indicassero l’utopia come realizzazione possibile della convivenza democratica, anima del cambiamento del potere chiamato a conversione. Nella realtà latino-americana della Teologia della liberazione si era tentata un’ubbidienza all’evangelo secondo la discriminante della «scelta dei poveri» ma il restante della Chiesa locale bussava alle porte dell’istituzione centrale perché il papato intervenisse rifiutando quella prassi religiosa.
L’aver giudicato mons. Romero allineato con la Teologia della liberazione ha procurato il blocco dell’iter processuale della sua beatificazione. L’interpretazione dell’ortodossia aveva preso il sopravvento ma, nel caso, il potere religioso non si affrancava dalla sua dipendenza da quello civile; interpretava il messaggio evangelico «illibato» ma lo lasciava colluso con Cesare. Oggi la svolta di Papa Francesco: l’ultima e decisiva forma di interpretazione favorevole, questa volta, al riconoscimento del martirio eroico del vescovo.
Nel caso di Tommaso Campanella, l’istituzione ufficiale intervenne per sancire il blocco di quel pensiero utopico.

Ma l’utopia è più il frutto del non-luogo e della speranza che della gerarchizzazione istituzionale; ciò non toglie che essa si radichi nella stessa città dell’uomo per dare a questa la traiettoria alternativa della giustizia e ai cittadini la possibilità del riscatto dalle ingiustizie. La chiesa che non ha la pretesa del monopolio religioso in un territorio riconosce che i cristiani utopici sono parrocchiani in senso greco: paroikòi cioè stranieri, senza presunzione di proprietà territoriale.
La relatività nel processo ecclesiologico, secondo noi, risulta proprio dal fatto che non è il dogma ad essere in discussione (e quindi non si tratta di eresie) ma di lettura della prassi, eseguita secondo un’interpretazione; ma questa è tutta figlia del linguaggio, del giudizio storico sugli avvenimenti e sulle strutture politiche: non è in discussione il tempio ma le bancarelle, non l’adorazione ma l’economia dei cocci. Gli integralisti, anche cattolici, trasferiscono sul dogma, di cui si sentono osservanti depositari, l’interpretazione del dato socio-politico. Quasi gli attribuiscono la fisionomia dell’assolutezza, mentre i lottatori del diritto diffuso e riconosciuto gli attribuiscono la relatività, sia come progetto sia come costruzione sociale. Lo spostamento dell’assicella di livello tra prassi e trascendenza è relativo; non nel senso che possa esserci baratto tra materialità e spiritualità, tra sociologia e vangelo ma che la prassi è evangelica se si ispira al messaggio di Gesù. Il messaggio resta tale anche se la prassi è mutevole? L’integralismo e il fondamentalismo sono riduzionisti: o così o sei fuori!

Nella circostanza sud-americana si riproponeva la dialettica tra Francesco d’Assisi con la sua madonna povertà e il papato fregiato di potere e di splendore regali, tra profezia e istituzione ufficiale. In tutta la storia del profetismo (non solo ebraico) il profeta non è stato quasi mai esponente gerarchico dell’istituzione; Gesù di Nazareth fu il «figlio dell’uomo» e non un membro del sinedrio o un rabbino ufficiale.
Se Papa Pacelli condannò il movimento e gli esponenti dell’esperienza francese dei Preti-operai (anni 50) Giovanni XXIII li riabilita e promuove come consultori del Concilio i due teologi domenicani Congar e Chenu, che erano stati i teorici di quell’esperienza. Era in giuoco il dogma o l’interpretazione?1
La querelle successiva tra Vaticano e Giovanni Franzoni (l’ex abate benedettino), tra alcuni vescovi italiani ed Ernesto Balducci, tra don Mazzi dell’Isolotto di Firenze e il Vaticano è sull’ortodossia o sull’interpretazione? Siamo propensi a credere che si tratti proprio di quest’ultima, ma se colui che interpreta ha il potere l’altro perde peso specifico: solo col tempo la verità si decanterà e riconsegnerà alla profezia la sua valenza!
L’interpretazione nell’istituzione giuoca questo ruolo: essa assegna la soglia differenziale, l’indice che demarca la variazione tra progresso e regresso, rispetto dell’ortodossia o scostamento da essa; ma se pretende di fissare l’univocità delle prassi possibili in nome del vangelo, allora essa giuoca a seconda delle convenienze per la salvaguardia del potere, in nome della famosa «prudenza».

 

1 La teologia dei «segni dei tempi» (Mt., 16.3) ebbe i due frati come teorici. Il trattato di base di Marie-Dominique Chenu (1895-1990), Le Saulchoir: Une ècole de la thèologie, Paris 1937. Di Yves Congar (1904-1995), l’opera significativa: Per una Teologia del Laicato, Brescia 1966 (tr. da: Jalons pour une Théologie du Laicat, Ed. du Cerf, Paris 1953). Il periodo di condanna per entrambi fu dal 1954 al 1956; poi esperti al Concilio Vaticano II nella fase preparatoria e per tutta la sua durata dal 1962 al 1965.