Satelliti e Gps studiano il magma sotto i Campi Flegrei

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La deformazione del suolo ai Campi Flegrei vista dai satelliti Cosmo-SkyMed. La zona viola, in corrispondenza della città di Pozzuoli, è quella con il maggiore sollevamento (circa 10 cm tra il 2012 ed il 2013). Le zone verdi sono quelli in cui la deformazione è molto piccola
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Una nuova tecnica, firmata Ingv e Cnr, in grado di calcolare, attraverso i dati satellitari e Gps, le modalità con cui il magma profondo risale all’interno del sottosuolo dei Campi Flegrei, creando deformazioni, anche millimetriche, della superficie terrestre. Un meccanismo probabilmente comune ad altre caldere (Yellowstone negli Usa e Rabaul in Papua Nuova Guinea). Lo studio, pubblicato su «Scientific Reports», fornisce nuovi sistemi di monitoraggio utili ad affrontare eventuali future crisi vulcaniche

I dati acquisiti dai satelliti e dai ricevitori Gps della rete di sensori presenti nell’area dei Campi Flegrei, servono per monitorare le deformazioni della superficie terrestre e conoscere, in tempo reale, l’andamento del sollevamento del suolo all’interno della caldera. È la nuova tecnica di monitoraggio messa a punto da un team di ricercatori dell’Osservatorio vesuviano dell’Istituto Nazionale di Geofisica a Vulcanologia (Ingv-OV) e dell’Istituto per il Rilevamento elettromagnetico dell’Ambiente del Consiglio nazionale delle Ricerche (Cnr-Irea), per comprendere meglio i fenomeni di sollevamento avvenuti in questi ultimi anni ai Campi Flegrei.
Lo studio, che rientra tra le attività di monitoraggio promosse dal Dipartimento nazionale di Protezione civile (Dpc) e di quelle svolte nell’ambito del progetto europeo Med-Suv (MEDiterraneanSUpersite Volcanoes), è stato pubblicato su «Scientific Reports».
«Grazie ai dati acquisiti dai satelliti Cosmo-SkyMed (messi in orbita dall’Agenzia spaziale italiana a partire dal 2007), dotati di sistemi radar, e dai ricevitori Gps della rete di sorveglianza geodetica Ingv-OV, composta da ben 14 sensori sparsi nell’area dei Campi Flegrei – spiega Susi Pepe, ricercatrice del Cnr-Irea – è stato possibile studiare le deformazioni, anche millimetriche, della superficie terrestre e conoscere l’andamento del sollevamento del suolo all’interno della caldera».
Negli scorsi millenni la caldera dei Campi Flegrei ha prodotto eruzioni di dimensioni ciclopiche: quarantamila anni fa quella dell’Ignimbrite Campana e quindicimila anni fa quella del Tufo Giallo Napoletano, che hanno fatto crollare la parte superficiale del vulcano per centinaia di metri, formando l’attuale struttura.
«Dopo l’ultima eruzione del 1538, che ha prodotto il cratere di Monte Nuovo – afferma il ricercatore responsabile della Sala di Monitoraggio dell’Osservatorio Vesuviano dell’Ingv, Luca D’Auria – il suolo dei Campi Flegrei, ha iniziato a sprofondare lentamente per secoli, interrompendo questo andamento intorno al 1950, quando l’area flegrea ha ripreso a sollevarsi. Questo fenomeno, noto come bradisisma, ha manifestato tutta la sua violenza tra il 1982 e il 1985, periodo in cui il suolo si è sollevato di quasi 2 metri, accompagnato da terremoti, provocando l’evacuazione di migliaia di abitanti della città di Pozzuoli. Nel 2005 il suolo ha ripreso a sollevarsi lentamente, e i terremoti, di bassa magnitudo, sono ricomparsi».

Negli ultimi 10 anni il suolo si è sollevato di quasi 30 cm, tanto che nel dicembre 2012, sulla base delle valutazioni della Commissione Grandi Rischi, il Dipartimento della Protezione Civile ha innalzato dal verde (quiescenza) al giallo (attenzione) il livello di allerta dei Campi Flegrei, con il conseguente rafforzamento da parte di Ingv del monitoraggio del vulcano.
«Riguardo l’origine del bradisisma flegreo – prosegue D’Auria – la comunità scientifica concorda sul fatto che tra il 1985 ed il 2012 il sollevamento del suolo era legato all’immissione di fluidi idrotermali (acqua e gas) all’interno delle rocce della caldera e al progressivo riscaldamento di queste ultime. Sul più recente episodio di sollevamento, tra il 2012 ed il 2013, il fenomeno sarebbe, invece, da attribuire alla risalita di magma a bassa profondità (circa 3 km) che si inietta nelle rocce del sottosuolo formando uno strato sottile, noto come sill, un piccolo “lago sotterraneo”, con un raggio di 2-3 km. Il sill era già presente nel sottosuolo e probabilmente è stato attivo durante le crisi bradisismiche degli scorsi decenni quando, quantità di magma, anche dieci volte superiori, sono arrivate in questa piccola camera magmatica superficiale».
Il magma all’interno del sill però, può raffreddarsi rapidamente, rendendolo quindi meno capace di produrre eruzioni. Questo meccanismo, osservato ai Campi Flegrei, è probabilmente comune ad altre caldere (ad esempio Yellowstone negli Usa e Rabaul in Papua Nuova Guinea) e potrebbe spiegare alcuni comportamenti apparentemente «bizzarri» osservati in questi vulcani.
«La previsione delle eruzioni vulcaniche nelle caldere presenta, a volte, difficoltà maggiore rispetto ad altri vulcani – aggiunge D’Auria dell’Ingv -. La risalita e l’intrusione del magma all’interno di sill potrebbe, infatti, essere il normale ciclo di vita delle caldere».
I risultati dello studio sono di grande importanza per l’interpretazione dei dati acquisiti dalle nuove generazioni di satelliti (come quelli della costellazione Sentinel del Programma europeo Copernicus, operata dall’Agenzia spaziale europea, Esa) e dalle innovative tecnologie di monitoraggio geofisico ai Campi Flegrei.
«Questi nuovi sistemi di monitoraggio, integrati con le nuove metodologie di analisi, possono fornire uno strumento utile ad affrontare eventuali, future, crisi vulcaniche ai Campi Flegrei», conclude Susi Pepe del Cnr.