Antropologia e Teologia

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Tra il nomadismo ebraico e l’esperienza itinerante o cammino della chiesa cattolica del Concilio Vaticano II si collocano tanti significati del cammino proprio dell’esperienza umana e religiosa secondo l’interpretazione teologica del mondo e del tempo.

Quando l’ebreo cessa di essere «errante»? quando i suoi passi avverano la promessa che, se anche non indica in modo perentorio territori e tempi della stabilità, muove gli individui secondo la profezia? da nomadi gli Ebrei diventano popolo e nazione, ma non senza passare attraverso l’esodo.
In questo itinerario è inscritto il racconto e l’esperienza sociale, politica e mistica dell’ebraismo. Tale connotazione è molto forte tanto che, nelle diaspore che si sono succedute nel tempo, gli ebrei sono riusciti a mantenere il senso di nazione fino al punto che le esperienze dolorose inflitte loro presso svariate nazioni hanno reso indelebile in loro il marchio dell’esilio: episodio temporaneo eppure pedagogico, quasi azione purificatrice connessa con ogni ritorno, nel senso del contro-esodo. La «terra promessa» non è quindi una metafora, un atteggiamento mistico, un rifugio intellettuale ed emotivo; è, invece, in modo figurativo, il colore della bandiera, il realismo di una lingua, il rito devoto che l’ebreo celebra pur restando dentro le diverse culture in cui è collocato.
Le sue pasque non sono soltanto la celebrazione del ricordo, sono soprattutto l’attualizzazione della liberazione, non solo racconto riconoscente ed ubbidienza al comandamento di Yahweh ma anche rilettura storica di tutte le sofferenze, persecuzioni e liberazioni verso Gerusalemme, monte santo e simbolo dell’Alleanza: il menorah e la stella, simboli dell’alleanza e del regno di David, sono il ricordo di Sion, la stella di attrazione per cui, dall’antica Persia o dalla moderna Polonia, Germania, Russia, ecc., questo popolo attende i suoi contro-esodi, sempre credendo, «contro ogni speranza» sulla falsa riga di Abramo, nel tormento del viaggio purificatore e nel disvelarsi del Dio che parla al popolo, solo che questo si riappropri delle «cetre appese agli alberi» per riprendere l’antico inno a Sion, la città posta sul colle, spazio del sacro Tempio, dimora della Torah e dell’Arca di alleanza.
Il cristiano (vedi l’esperienza religiosa di ogni chiesa, sia essa separata, ortodossa o cattolica) ha motivato dalla Torah la sua interiorizzazione di destinazione utopica, il prolungamento dell’Alleanza veterotestamentaria nella promessa perentoria di Gesù circa la sua seconda venuta (Lc., 17,30; 1Cor., 15,23).
Il cammino cristiano, quindi, si colloca come itinerario tra due grandi momenti: l’esperienza individuale, interiore e quella di popolo. C’è la promessa prima di tutto come comandamento ad intraprendere il viaggio con il suo deserto e dall’altra parte c’è l’insediarsi nello spazio e nel tempo. Al loro interno la prova della fame e della sete fino alla manna (Es., 16, 14-15) e all’acqua sgorgante dalla roccia (Es. 17, 6-7).
La manna che, nel suo etimo ebraico «man-hu», è una domanda emergente dalla sorpresa: «che cos’è?». La storia derivata da questo racconto ha esteso le due parole di domanda alla forma del nome proprio, cosa che noi continuiamo a nominare; ma dentro la parola c’è la sorpresa per il dono del cibo. Come se il racconto dicesse: «e Dio fece trovare «che cos’è» di prima mattina…».
Tra i due esodi, quello ebraico e l’altro dei cristiani, c’è una differenza di fondo. Nel primo c’è l’attesa continua e sofferta per cui le contraddizioni storiche dolorose sono vissute dal popolo nella continuità della Torah e dell’Alleanza. Per il cristiano (non solo il cattolico), invece, Gesù è il Messia che conclude l’antico Patto e riverbera sui credenti la proiezione mistica della Pasqua, non più pasah = passaggio ma Resurrezione. L’Agnello non si consuma come simbolo ma è affermazione della presenza divina, l’acqua non asperge simbolicamente ma è lavacro di affiliazione nel Regno Nuovo, il popolo non è solo il testimone della promessa ma il Corpo mistico che, come Chiesa, si sposa al Figlio dell’uomo. E gli altri elementi imposti al popolo di Abramo, come l’agnello e il pane azzimo, sono per i cristiani simboli convertibili e misteriosi, sostegno alla vita di unione con il Cristo, realizzazione prima ed ultima della promessa.
Potremmo dire che nell’esperienza ebraica si rimane nell’ambito della promessa e al tempo stesso nei vissuti temporali e materiali delle vicende storiche; nel cristianesimo c’è il già-realizzato da cui dipende la riflessione che è teologia. Si esce dall’antropologia significante per entrare nel Logos attivo ed alternativo: nel «Significato» che è «Salvezza in mezzo al suo popolo».
Il cristianesimo riprende tutto il Libro ma lo rivive ora come metafora e simbolo ora come profezia della realtà «nuova» ora come parola vera e propria, Voce di Dio consegnata alla generazione dei figli nuovi, fratelli di Gesù e da Lui anticipati al cospetto del Padre.
Il cristiano quindi si dibatte sempre tra queste due realtà: accogliere la Parola ma rileggerla alla luce della sua continuazione dopo Emmaus. Anche questo un vero e proprio cammino, contrassegnato dal cambiamento del Sabato dei Sabati: «siete gli unici a non sapere quello che è avvenuto a Gerusalemme… e come ciò fosse già anticipato nelle scritture?», dice Gesù ai due compagni di viaggio (Lc. 24, 25-27).
A tutta l’esperienza esistenziale dell’antico popolo il cristiano sa di dovere aggiungere «un di più», non solo di senso, ma di autentica realtà esistenziale e soprannaturale. Così la Pasqua: certamente promessa, annunzio, passaggio, trasformazione è ora resurrezione ed anticipazione del Regno di Dio, ora e qui.
Questa interpretazione è già preambolo teologico. Esso ubbidisce all’iniziativa di interpretare i fatti veterotestamentari alla luce di quelli neotestamentari. Ed è proprio quello che l’ebraismo non accetta, ritenendo spuria l’esaltazione di Gesù da rabbino-maestro in Rivelatore della sua missione messianica come Figlio di Dio.
Sulla croce, patibolo di ignominia, egli esprime il suo ultimo giudizio: «tutto è compiuto», sicché la riflessione postuma si fa interprete proprio dei contenuti di questo «tutto», ne scandaglia le componenti, fino a trasformare in prolungamento biblico gli Atti, le Lettere e la Profezia apocalittica. Questi racconti e appunti del primo tempo della chiesa diventano anch’essi Bibbia. Tutta la produzione successiva sarebbe stata teologia, prima patristica e poi dogmatica, secondo le varie scuole.
Questo itinerario ci sembra illustri le differenze e dimostri la consequenzialità tra il cammino biblico antico e quello post Christum.
Potremmo affermare che il pozzo di Giacobbe non solo simboleggi l’avvio dell’evoluzione neotestamentaria, ma annunzia il «fatto»: Gesù proclama alla donna sbalordita di Samaria la sua messianicità, poiché l’acqua rinnovatrice e dissetante che è Lui, Parola temporalizzata, discriminante tra due testamenti, quella che ora porta a compimento la Promessa avviando il nuovo cammino: simile al primo, poiché basato sull’annunzio e la promessa, differente da esso, però, perché adesso esiste un’anticipazione fondativa del Regno. L’utopia è «cosa nuova». Soltanto un solo ostacolo a questa realizzazione: l’ora non è ancora giunta, quando sarà arrivata, la Parasceve si trasformerà nel Sabato dei Sabati, con la Resurrezione sconosciuta alla Torah e a tutti gli antichi libri biblici ma discriminante della vittoria del «frutto di lei» (Gen., 3, 15) sulla decomposizione del destino dell’uomo.
Il cammino spirituale si è trasformato da racconto in itinerario della persona «chiamata» alla fede e alla comunità costituita in Corpo Mistico, al cui interno l’anello di unificazione e trasformazione resta il Cristo. Dell’antica Legge resistono dei capisaldi indispensabili e comunque non superati dall’esperienza post-resurrezione: Abramo, Samuele e Davide.

Il primo caso. Abramo è la condizione della prova. Il fatto, proposto come circoscritto al rapporto padre-figlio, tocca poi tutta la realtà universale dell’esperienza religiosa e mistica. Il «padre nella fede» si propone come itinerario dell’accostamento di ogni credente al progetto che Dio gli riserva. Qual è la sua portata? L’interrogativo non ha una risposa univoca e definitiva, perché il progetto è individuale anche se la chiesa si proietta in una missione universale.

Nel secondo, Samuele: è la chiamata misteriosa che intercetta una disponibilità mediata dall’interpretazione del maestro profeta; l’eccomi ha una ragione, c’è a monte il riconoscimento di Chi ha chiamato.

Il terzo, il caso di David: è la condizione di una risposta positiva, attraversata dall’esperienza della prevaricazione: il peccato che sta sempre dinnanzi e il Dio che lo dimentica. Il giuoco delle parti, come duplice vicenda dell’umanità tra povertà morale e ricchezza del dono soprannaturale.

Il cammino è quindi esperienza del tutto umana e nell’ambito spirituale è una occasione umana che si colloca nel piano della misericordia e del dono di Dio. Per questo il posto della teologia nella storia del pensiero è il luogo dell’interpretazione di fatti reali e di realtà spirituali altrettanto oggettivi e storici.
Ma ecco che la teologia è sinonimo di teologie, perché suo elemento determinante è l’interpretazione. Questa, poi, è talmente estesa e coinvolgente che da essa sono nate le chiese, sovrabbondanti di esperienze, di tradizioni, accanto alle quali, sovente, si sono coagulati interessi nazionali e scontri anche gravi.
In questo caso, dalla teologia si ritorna all’antropologia e… «dio ci salvi» ai fondamentalismi. Si riapre il cammino, nuovi jalons, altre soste… la pace è rimandata!
Il cammino isolato e privato di ciascun uomo si estende e si moltiplica diventando quello della società e dell’umanità intera. Mentre lo percorriamo si concretizzano esperienze particolari e si definiscono fisionomie di interi popoli. Quello che ci sorprende è poi il fatto che anche pochi uomini, responsabili di stati, possano tracciare sovvertimenti e rideterminare la storia del mondo. Ricomincia l’attesa che altri sorgano a testimoniare e a indicare la metànoia, il cambiamento, la riconversione verso l’itinerario virtuoso che si era interrotto.
Nessuna pace può ritenersi dono assoluto se non quella dello spirito. Ma la pace tra tutti o tra pochi è frutto della volontà educata, raffinata dal senso dell’universalità. Normalmente chi si mette in cammino può prevedere compagni di viaggio; anche l’eremita, che popola di soggetti indefiniti la sua oasi, sceglie il suo peregrinare come cammino non da solitario ma da sentinella di avamposto che sposta ancora più in avanti il protendersi dell’umanità intera verso l’Assoluto. A questo punto la teologia non basta più, la contemplazione ricolloca l’umanità con il sorprendente Altro e l’attesa riprende forma mentre la Promessa riappacifica la storia.
Un monaco buddista, giunto a Camaldoli di Arezzo per confrontarsi con il Monachesimo occidentale cristiano, in un incontro notturno con gli ospiti nell’agosto del 1975, rifletteva: «l’esperienza religiosa secondo le varie credenze è come l’ascesa di una montagna; ciascuno sale dal suo versante e non vede il cammino degli altri; pensa che la verità propria sia l’unica. Ma giunto al culmine, al punto unico del vertice, si accorge che il suo Dio è il Dio unico di tutti gli altri, saliti dai versanti opposti e mai incontrati prima ma tendenti allo stesso Unico vertice».
Poliedricità del cammino religioso! ma non va confuso con le teologie perché queste sono la ricostruzione razionale e l’interpretazione del fatto religioso: lo sposalizio mistico di Caterina da Siena, invece, è la consumazione dell’umano traslato nel mistero arcano che rapisce a sé la caducità del tempo e della carne. L’antropologia chiama la teologia come base di appello alla disincapsulazione e linea di spinta verso la trascendenza.
Se sostando sulla riva del mare, da solo, gridi, tra lo sciacquio della battigia non torna a te la voce, essa si espande nello spazio a dialogare con le creste spumeggianti delle onde; sulla montagna, tra terra e cielo, il tuo grido ritorna e l’eco ti sembra la voce delle altre cime: il tuo grido, però, è sempre tuo, tanto a mare quanto in montagna e la risposta migliore è quella che resta nel silenzio, senza la ripetizione acustica che è dialogo surrogato. Il cammino, in basso o in cima, è tuo, ma nel silenzio la voce prestante dell’Assoluto ti rivela che hai bisogno dei tuoi passi perché al tuo incedere giunga la grande risposta.
Ci sono dei cammini irrazionali e violenti che gruppi sparuti di guerrieri fondamentalisti impongono a credenti di altre religioni: le scimitarre ora sono armi sofisticate prodotte e fornite dall’occidente mercantile, quello stesso contro cui si avventano le tribù sparse a macchie di leopardo, incrementate da occidentali convertiti alla causa dell’espansionismo pseudoislamico. Da quelle regioni proviene questo insorgere di vendetta, dai luoghi dove in passato diverse nazioni occidentali hanno esercitato colonialismo e sfruttamento di risorse.

Ci sarà una nuova Lepanto? In un tempo in cui sembrava scontato che altre deflagrazioni non si sarebbero verificate, ecco emergere il relativo e la necessità di reinventare la pace. A tutti i livelli, tutti siamo chiamati a sincronizzare le nostre menti sulle lunghezze d’onda dell’antropologia che tende alla disincapsulazione e ai primi passi della trascendenza. Il nostro giudizio oggi è questo: non è il principio religioso che alimenta l’odio di religione; sembrerebbe piuttosto che sia l’espansionismo vendicativo l’alimento che nutre l’odio sacrificale. Nerone e Diocleziano = Isis e simili? Non sembra, anche perché dietro gli attentati e le stragi sembra ci siano dei poteri forti. Potrebbe darsi che vecchi e nuovi alleati nello scacchiere mediorientale siano i silenziosi alimentatori di aiuti ed armamenti, quegli stessi che oggi investono sui mercati del capitalismo occidentale, foraggiando sulle imprese che accusano indebolimento e crack finanziario.
Quando questo ed altro sarà palese, allora potremo dare un nome ed una fisionomia compiuta alla bandiera nera che garrisce tra città e deserto.
Il cammino è aperto, appena iniziato: resta molto lavoro di ricerca e di reinterpretazione necessaria per dare senso alle relazioni internazionali contemporanee ed allentare la spinta distruttiva.
Questo viaggiare di barconi alla deriva, questi cimiteri nei fondali del mare detto «Nostrum» sono accusa ed appello: accusa contro il mondo opulento sfruttatore di molte generazioni indigene su quei continenti da cui oggi proviene anche l’appello alla più semplice e complessa delle domande ma altresì al primo ed assoluto diritto, quello alla vita. Possiamo pensare che l’Occidente sia arbitro unico ed ancora indispensabile sia dell’accusa sia dell’appello? Si può pensare che sia la politica degli stati a fondare la società nuova e migliore? Essa è impotente proprio perché responsabile delle anomalie drammatiche: urge l’educazione delle generazioni alla virtù, a quella della giustizia, l’unica che potrà ridare al mare la congeniale destinazione di vita, alla terra e all’aria la perenne funzione di germinazione, all’uomo e alla donna l’assenza di contaminazioni.