Se l’ambientalismo «sposa» il business

1133
terra 2015
Tempo di lettura: 3 minuti

Come ha più volte ribadito il filosofo Slavoj Žižek viviamo in una società che, attraverso immaginarie lenti prodotte dall’economia globale, ha alterato la nostra percezione della realtà. D’altra parte, potevamo aspettarcelo da un processo di mercificazione inarrestabile degli oggetti e, persino, degli esseri viventi

Gli altri articoli di questa rubrica:
Il Paese che odia la scienza 
Se uccidono i lupi… cavoli senza protezione 

Forse siamo già assuefatti a una società commerciale fondata sul prefisso ingannatore (eco-incentivi, eco-rottamazione, bio-degradabili, bio-compatibili, green-economy, green-architecture, etc.). Eppure dovrebbe apparirci paradossale quanto l’uso comune delle parole create ad hoc dal marketing possa veicolare un messaggio completamente antitetico rispetto al suo obiettivo (green-washing, appunto).
Comprare un’auto nuova ci appare un’azione sostenibile dal momento che ci promettono eco-incentivi alla rottamazione. Utilizzare, ogni volta, un nuovo sacchetto usa e getta per fare la spesa, piuttosto che portarne uno riutilizzabile da casa, ci fa sentire meno in colpa quando leggiamo che la busta è bio-degradabile. E così con saponi e cosmetici «bio», legno e plastica «eco», smartphone e computer «green»… Potere della green-economy. Dietro simili slogan si cela, però, un subdolo messaggio che ci invita a non smettere di acquistare. Se davvero quei prodotti volessero condurci alla sostenibilità ci comunicherebbero, molto più onestamente, messaggi tipo: «non comprarmi»; «non sprecarmi»; «non buttarmi via»; «leggi bene l’etichetta»; etc.
Come ha più volte ribadito il filosofo Slavoj Žižek viviamo in una società che, attraverso immaginarie lenti prodotte dall’economia globale, ha alterato la nostra percezione della realtà. D’altra parte, potevamo aspettarcelo da un processo di mercificazione inarrestabile degli oggetti e, persino, degli esseri viventi. Mi sorprende, invece, che con simile aplomb le stesse associazioni ambientaliste, fondate ab origine con la finalità della conservazione e tutela della natura, stiano in età moderna cavalcando la stessa strategia di mercato.
Ne è passato del tempo da quando Aldo Leopold («A sandy country almanac») e Henry David Thoreau («Walden») tracciavano il sentiero verso la costruzione di un sentimento, più che un movimento, ambientalista planetario. È trascorso un po’ meno tempo da quando i fautori della pace-verde si lanciavano contro le baleniere e le petroliere. Forse non c’è mai stato un tempo in cui i «panda» abbiano davvero difeso i panda. Quel che è certo è che a guardare il movimento ambientalista contemporaneo sorge il dubbio che in molti abbiano indossato quegli stessi occhiali in grado di alterare la realtà. La crisi economica globale ha avuto come effetto quello di ridurre in primis le spese non necessarie delle famiglie e tra queste le donazioni alle associazioni ambientaliste. La riduzione delle disponibilità economiche annuali ha stimolato l’ingegno delle multinazionali verdi e così Greenpeace, Wwf & Co. hanno probabilmente pensato che, per restare a galla, fosse necessario smettere di contrastare le altre multinazionali e iniziare a stringere accordi di non-bellicosa collaborazione. Una sorta di pace-verde fredda.
Questo è stato l’apice della catastrofe. Con la scusa dell’apertura di tavoli di discussione e trattativa le grandi associazioni ambientaliste hanno smesso di lottare e hanno iniziato a collaborare facendo, volontariamente o involontariamente, il gioco delle aziende globalizzate.
Qualche decennio fa dinanzi a problemi apocalittici, come l’incalcolabile perdita di biodiversità tropicale dovuta alle piantagioni di olio di palma, il mondo ambientalista sarebbe insorto. Oggi, invece, per non danneggiare i propri interessi e permettersi di continuare a pagare gli stipendi ai loro dipendenti, tutt’altro che volontari (come lasciano credere nei loro statuti e siti internet), le grandi Ong verdi stabiliscono collaborazioni e partnership con i produttori di oli tropicali (come la Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile, Rspo o il Palm Oil Innovation Group, Poig) e favoriscono, così, il prosieguo della distruzione della natura. Ma lo fanno illudendo l’opinione pubblica che sia tutto sotto controllo. Che loro stiano vigilando affinché la natura venga sì sfruttata, ma in maniera sostenibile. Giustificano l’Eco-cidio per continuare a vivere.
Dopo il documentario prodotto dalla TV tedesca sulla connivenza tra gli amici del panda e le multinazionali, il recente scandalo portato alla luce da Survival International riguardante il maltrattamento dei popoli indigeni da parte del Wwf in Africa, le accuse di cattiva gestione delle donazioni rivolte a Greenpeace International, non ha sorpreso più di tanto la «propaganda pro-Nutella» di Greenpeace Italia nonostante Ferrero sia una delle poche aziende ad aver affermato di non voler rinunciare all’impiego di olio di palma e la costante presenza del Wwf ai tavoli delle aziende malaysiane e indonesiane produttrici del disastroso olio. Peccato che, come più volte sostenuto, l’olio di palma sostenibile non esiste!
Peccato, soprattutto, che l’ambientalismo abbia ormai perso quello spirito combattivo ad oltranza messo in atto, sino a un po’ di anni fa, per contrastare l’incessante distruzione della Natura da parte dei colossi del mercato globale e si sia trasformato nel loro fedele segugio, sempre pronto a scodinzolare al minimo cenno e a ricevere un osso (magari di panda o di balena) per evitare che i vicini lo sentano abbaiare.

 

Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D., Biologo ambientale ed evolutivo, Professore associato in Ecologia e Biodiversità presso la Tomsk State University (Russia)