Si fa politica anche quando si sceglie la carta igienica

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carta igienica
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Oggi siamo tutti più consumatori che cittadini, e quando decidiamo di preferire un certo tipo di prodotto, il mercato immediatamente si adegua. Non è questa una dimostrazione del fatto che «abbiamo noi il potere», a partire proprio dai comportamenti privati e dalla loro sommatoria?

Pubblichiamo un altro intervento di Massimo Blonda, Fondazione di partecipazione delle buone pratiche. Qui si delinea più concretamente la linea d’azione che si vuole prendere e da dove muovono le idee e i suggerimenti. Inizia quindi la parte più difficile del lavoro: aggregare chi ha le stesse idee e smuovere abitudini e preconcetti. In parole povere uscire dal guscio che ognuno si è costruito e rifugiato, autoreferenziando i propri comportamenti e misurarsi con i problemi, le azioni, i cambiamenti. Sembra più difficile a dirsi che a farsi ma Blonda dà una via di uscita: prendiamo coscienza del potere che abbiamo e potremo modificare molto.

Dalla fine degli Anni 60 in poi, nella cultura politica più impegnata, vige una consolidata classificazione valoriale fra campo «privato» e campo «pubblico» che vede il primo relegato nel novero degli egoismi appena giustificabili, se non del tutto esecrabili, rispetto al nobile impegno politico, associativo, di volontariato e quant’altro costituente l’arcipelago del secondo campo.

Partecipare alla politica è vissuto come cosa più nobile rispetto al costruirsi miniecosistemi di vivibilità, sia pure correttamente orientati a valori elevati; questo è ancora il background, anche psicologico, degli «impegnati» di oggi. In altre parole, puoi anche concederti grosse fette di incoerenza comportamentale se dai tutto nella lotta politica e istituzionale per cambiare il sistema; fatto ciò, cambiare privato e personale sarebbe conseguente.

Ora, saltiamo per brevità gli evidenti (e preponderanti) casi in cui proprio la coriacea piena partecipazione al sistema politico istituzionale è essa stessa modo di vivere preferenziale, tanto da indurre a non voler affatto «cambiare» il sistema checché se ne propali, e soffermiamoci sulle rarità costituite da vera onestà intellettuale e coerenza: la «nobiltà» di impegno, in altre parole.

Sull’altare di questa, i più sono disposti anche ad un grande sacrificio del proprio privato, e questo gli fa certamente onore, per certi versi; famiglia, qualità della vita, amicizie, legami territoriali, persino la salute diventano beni consumabili in nome del «grande disegno». Ma non senza una conseguenza, di cui è il caso di discutere. E non si tratta delle possibili personali ricadute di questa scelta, che pure rischiano di essere devastanti, ma di un fattore culturale degno di rilievo: il rifiuto dell’idea di cambiamento del sistema a partire dal privato e dalla piccola comunità, fuori, al lato o nonostante la politica istituzionale e dei grandi sodalizi.

Eppure, se non la storia anche degli ultimi anni, la semplice osservazione degli eventi e dei fenomeni in corso suggerirebbe una profonda rivalutazione di questo assunto: siamo sicuri che il mondo si cambi cambiando i governi? E se, invece, esistesse un consolidato meccanismo che portasse qualsiasi governo a doversi adeguare a processi e poteri sovranazionali, senza avere alcuna possibilità di intaccarli seriamente (e non mi pare di essere il primo fondatore di un nuovo filone complottista), quale altro potere di cambiamento potrebbe essere messo in campo e utilizzato nello spirito di vera evoluzione, magari considerando anche i rischi di sopravvivenza di specie a cui siamo sottoposti?

Per iniziare a farcene un’idea, basta una considerazione molto semplice: oggi siamo tutti più consumatori che cittadini, e quando decidiamo di preferire un certo tipo di prodotto, il mercato immediatamente si adegua. Non è questa una dimostrazione del fatto che «abbiamo noi il potere», a partire proprio dai comportamenti privati e dalla loro sommatoria? Se poi scoprissimo che questo fenomeno non riguarda solo il mercato delle cose e dei servizi, secondo un classico schema di economia convenzionale, ma molti altri fenomeni che originano proprio fra le 4 mura di casa o le 4 strade del quartiere o la 4 viuzze di campagna, potrebbe cambiare il valore che diamo all’impegno «alto» rispetto al vile «quotidiano»? Vi immaginate se tutto l’impegno della parte sana del nostro paese oggi «sprecato» (consentitemi l’estremo) in politica si dedicasse all’orientamento dei comportamenti, non delegando questo compito solo a sia pur validissime associazioni, quali effetti si potrebbero avere? E se non fossero solo prediche e spot, ma la diffusione di esempi già praticati e consolidati, tanto da rappresentare vere alternative attrattive di emulazioni, non sarebbe ancora più efficace?

Non sono il solo a riflettere sul fatto che dedicarsi a promuovere, replicare, diffondere e disseminare buone pratiche ambientalmente e socialmente sostenibili possa seriamente essere l’unico innesco di cambiamento oggi possibile. Se si puntasse molto a organizzare sistemi microeconomici e stili di vita «ecoresilienti», nelle pieghe degli spazi che i processi di accentramento necessariamente sono costretti a lasciare, forse si potrebbe assistere ad una vera rivoluzione dal basso.

Già sento le critiche a questa concezione: ma così lasciamo ai «politicanti» tutto lo spazio che vogliono e non abbiamo più voci alternative nelle istituzioni! E chi l’ha detto? Perché l’impegno alla costruzione di sistemi di vita e lavoro dal baso dovrebbe impedirci di votare efficacemente? È invece, l’esatto contrario, e spiego perché: si voterebbero persone e aggregazioni che sono totalmente immerse nei nuovi sistemi organizzativi e che non hanno alcun interesse ad abbandonarli in cambio di stili di vita o fette di potere che hanno già rifiutato all’origine, che non li attraggono. Costoro non potrebbero che difendere e promuovere proprio i principi e i processi di creazione delle loro realtà, e non potrebbero «tradirli», proprio per disinteresse verso la moneta con cui il sistema primario li vorrebbe ripagare.

Viceversa, chiunque faccia una vita del tutto convenzionale per stili e schemi, anche se dotato di una mente illuminatissima e abbia maturato le idee e proposte più avanzate del mondo, non avrà mai né la forza incrollabile di proporre un vero cambiamento, né una chiarissima direttrice di coerenza da seguire, né la capacità di resistere ai mille richiami alla mediazione, in cambio di un migliore posizionamento nella sua vita ordinaria. Fosse anche l’impressione di essere incisivo in senso positivo.

In realtà, questo anelito a salire la scala ordinaria del «contare» ed «essere importante», negli spazi che ci sono concessi oggi, se ci si riflette, fonda la sua forza prevalentemente nel proprio ego e nella sua tendenza all’espansione, grazie alla copertura dell’autoconvinzione di «stare facendo qualche cosa di importante». Difficile soffermarsi a ragionare in tutta onestà su quanto sia importante o efficace ai fini del cambiamento che si propone, quello che si sta facendo.

Quello a cui pensiamo noi delle «buone pratiche», invece, è il cambiamento di fatto, ove e come possibile, senza manie o afflati di cambiamento del mondo. Chi parla di salvare il mondo non lo vuole o può fare; chi lo sta cambiando veramente, in meglio, si intende, o non se ne accorge o non è interessato ai proclami. Gli basta vivere meglio. A queste ultime persone vogliamo e dobbiamo guardare, anche nell’ipotesi di costruire nuove forze politiche. Serve una coerenza oggettiva nei fatti, prima ancora che per scelta o convinzione.

Per chiudere una preghiera ai numerosi prevedibili critici di questi concetti: evitate di classificarci come antipolitici. Mio padre mi diceva sempre che si fa politica anche quando si sceglie un rotolo di carta igienica, e caspita se aveva ragione! Allora vale la pena sceglierlo bene, questo rotolo, non vi pare? Può servire portarselo dietro anche a chi siede in parlamento, invece di usare acriticamente quello che si trova lì.

 

Massimo Blonda, Fondazione di partecipazione delle buone pratiche