A chi conviene un’altra scuola?

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SCUOLA STUDIO 86
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La scuola resta il luogo critico per eccellenza dove la mente matematica riesce a scandire, frazionare, decodificare, distinguere e cassare le contraddizioni. Ecco perché conviene tenerla soggetta, dirigibile, accondiscendente e promotrice del consenso

La domanda esige il collegamento con quest’altra: conviene a chi? La convenienza infatti richiede che ci sia corrispondenza tra l’oggetto e il beneficiario che possa goderne.

L’architettura scolastica pretesa da chi esalta una certa autonomia differenziata regionale non si articola come struttura nazionale decentralizzata utile per un’efficienza più veloce e più rispondente agli interessi degli utenti della formazione scolastica e degli operatori della stessa ma si prefigge il fine della corrispondenza tra impianto e benessere che il territorio vanta; forse non solo questo.

Avanzare dubbi non è presunzione perché le finalità non dichiarate le desumiamo dai tanti interventi di partito e dalla propaganda elettorale; tutto ciò svela l’intento sotteso come tendenza verso il progetto strutturale alternativo all’assetto costituzionale del Paese.

Il passaggio non è cosa di poco conto: dagli alunni al territorio, dagli insegnanti al territorio. Territorio significa entità geografica, localizzazione, circoscrizioni e loro espansione. Se poi le regioni richiedenti sono tra loro confinanti allora l’effetto che si ottiene è la configurazione di un nuovo territorio italiano omologato dalle medesime progettazioni, che si costituirebbe come base di un’Italia fisica in funzione della conseguente Italia politica.

Così, portare a buon fine la conquista politica di un territorio regionale equivale ad un territorio reso affine e federato uniformando le competenze, omologando le fisionomie e rilanciando un’unità non più virtuale ma «di fatto».

Se proponi questa analisi critica in un dibattito sentirai risponderti che sei prevenuto e hai pregiudizi, perché l’ideologia che ti sostiene «è la visione tradizionalista e desiderosa di vivere di rendita con i benefici del nord più opulento, a cui spettano i frutti dell’impegno economico assecondato dal miglior saper fare».

Queste valutazioni sono di natura politica come politica sarebbe la frammentazione e l’aggregazione che si vorrebbe realizzare. Una strategia più sottile della tanto decantata secessione, modello rozzo e violento di riforma. Così le autonomie regionali, appunto differenziate, preludono alla federazione di esse e non più alla loro unità. Difendere l’unità nazionale diventa adesso un’azione di salvaguardia, il riconoscimento dell’unità storica realizzata non perché l’Italia fosse «un’espressione geografica» ma perché l’entità del nostro popolo, variegato, poliedrico e multiforme è l’effetto di una storia evoluta, cementata dal sangue dei suoi martiri. Insomma fu Italia prima ancora di diventare regno unico e una repubblica.

Possiamo affermare che il fascismo ci ha reso più popolo e più nazione a causa delle sofferenze inferte più di quanto l’avesse realizzato l’azione garibaldina. Il sacrificio delle libertà compresse, delle persecuzioni squadriste, degli ostracismi violenti hanno impresso il marchio Doc all’unità che la successiva costituzione repubblicana ha reso carta di identità per i cittadini dalla Vetta d’Italia a Lampedusa.

Le venti e più prerogative che alcune regioni richiedono, se fossero accolte ed esercitate, che cosa lascerebbero all’intervento dello Stato?

Oggi, l’atto più moderno e culturale che si possa fare è reagire ai tentativi gridati e proposti dalla cultura efficientista miope e grezza.

Ora si comprende bene perché tali fautori cerchino di abbordare la scuola: essa è il terreno prossimo e generalizzato per raggiungere tutti i cittadini, tutti gli alunni e tutte le famiglie, tutti gli operatori, tutta la cultura che attraverso la lingua e la storia rende nazione i cittadini diversi e vari.

La strategia digitale fa il resto: una sorta di social multiplier attraverso immagini e slogan raggiunge e moltiplica l’immaginario e, con l’aggiunta della proposta televisiva, penetra nella mediazione capillare dei linguaggi e fonda la mentalità collettiva. Secondo noi questa è una delle radici della politica volatile che però lascia le tracce di una convinzione nata dall’antologia virtuale e dai linguaggi contaminati che penetrano nel bagaglio mentale. Oggi chi comunica così può avvalersi di maggioranze utili per scopi anche personalistici.

La scuola resta il luogo critico per eccellenza dove la mente matematica riesce a scandire, frazionare, decodificare, distinguere e cassare le contraddizioni. Ecco perché conviene tenerla soggetta, dirigibile, accondiscendente e promotrice del consenso.

C’è quindi una pedagogia della strategia e, ad occhio avveduto, non ci vuole molto per svelare il grande segreto e sembra, ad oggi, che la stampa americana abbia conoscenza dell’ingerenza occulta straniera tra il 2016 e 2017 nella manipolazione dei flussi elettorali nei 50 stati degli Usa per creare consensi pilotati e favorevoli di parte. E in Italia a che cosa rispondeva l’iniziativa del centro studi americano presso la famosa certosa di Trisulti? una Scuola dei Sovranisti fondata da Steve Bannon con la caratteristica della cristianità ma con l’obiettivo di creare coesione tra i sovranismi europei. Suoi collaboratori figurano Benjamin Harnwell e il cardinale R. L. Burke cofirmatario del documento «Dubia» contro Papa Francesco, come reo di errori contro il dogma cattolico! E dire che l’ortodossia, in base all’ortodossa dottrina, è riconosciuta e sancita dal Papa o dal Concilio e non certo da quattro cardinali alla deriva!

Sarebbero queste le posizioni per la difesa delle «radici cristiane dell’Europa»? Questi criteri sono ben presenti in quanti si collocano come persuasori di mentalità con la propaganda: istituire centri di formazione, di penetrazione, anche con operatori internazionali che, guarda caso, cercano l’appannaggio delle chiese perché l’uso della religione crea sempre persuasione sulla bontà dell’uomo della provvidenza (in questo caso appropriata la «p» minuscola).

Perché ha creato scompiglio il semplice e timido approccio al confronto nell’Istituto Vittorio Emanuele III di Palermo? È stata la politica a strombazzare il caso, a intervenire e a chiedere misure coercitive. Quale tipo di scuola si vorrebbe? È il caso di cancellare la denominazione dello stesso istituto visto che il patronimico appartiene a chi firmò le leggi razziali, in fuga dal regno lasciando il dichiarato nemico sul territorio, libero di scorrazzare arretrando con stragi di massa.

C’è la pedagogia oggettiva, quella fatta di ricerca e scienza, quella di liberazione da costrutti cristallizzati e capace di alimentare il senso critico nella necessità di sradicare la violenza dalla nuova mentalità. Attenzione! i social network nelle mani di menti senza difesa produrranno mentalità disinvolte e liquide: essere governati da «letterati» di questo nuovo tipo non assicurerà l’unità e l’uguaglianza nel benessere sociale e nel rispetto delle minoranze, vera garanzia della democrazia.

Queste le questioni oggi sul tappeto. Riflettiamo mentre siamo in tempo.

Francesco Sofia, Pedagogista, Socio onorario dell’Associazione nazionale dei pedagogisti italiani