Salvare lingue e territori locali custodi delle identità

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San Paolo Albanese Annibale Formica
Una giornata di festa a San Paolo Albanese, foto di Annibale Formica
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Oggi sentiamo sempre più parlare di «identità» locali e di lingue minoritarie da salvaguardare. Ma cos’è e cosa indica, nel mezzo del vortice della globalizzazione, il termine «identità»?

Ad una prima definizione, identità dovrebbe richiamare alla mente termini come «appartenenza»; ma appartenenza ad un luogo, un territorio che mi rappresenta e nel quale mi rappresento, dove ritrovo parte di me stesso e della mia essenza più intima. In tal senso, l’identità di un territorio è un concetto che nasce e si sviluppa da una simbiosi, quella appunto che si instaura tra uomo e territorio. Quindi, l’identità di un territorio altro non è che lo scambio incessante tra uomo e territorio e viceversa. In quest’ottica acquista un senso anche il concetto di «lingua minoritaria» che diventa l’espressione verbale del sentimento che lega l’uomo al territorio in cui vive ed opera.

Un sentimento arcaico, antico che trova proprio nella lingua il canale che permette a questo sentimento di emergere, di esprimersi. Ma oggi cosa sono (o cosa sono diventate) le lingue minoritarie? Non hanno più nulla a che vedere col sentimento, con il legame ad un territorio, sono diventate qualcosa di «freddo», calcolato, ragionato e studiato a tavolino.

Che fine ha fatto la spontaneità e la freschezza delle nostre lingue? Oggi nessuno (o quasi) parla una lingua minoritaria; nessuno si sente legato ad un posto che gli trasmette valori, sentimenti ed emozioni. Tutti ci sentiamo cittadini del mondo, la nostra piccola patria ci sta stretta. Ma proprio quando le cose le stiamo perdendo (o le abbiamo perse) allora ci rendiamo conto che forse tanto male non erano, che forse una visione del mondo e della vita l’avevano. E cosa facciamo? Invece di salvaguardare quel territorio che esprime quella lingua, prepariamo progetti sulla lingua escludendo il territorio.

Che senso ha portare avanti progetti di salvaguardia della lingua se poi quella lingua non la parla nessuno? Allora, se è vero che la lingua è il portato ultimo di un territorio, la sua «voce», quale voce deve rappresentare questa lingua se il territorio è stato abbandonato a se stesso?

Una lingua ha senso se esprime le ansie, le gioie, i dolori, il vissuto di un popolo; ma se questo popolo è costretto ad emigrare perché quel territorio non è in grado di rispondere alle sue necessità basilari, ha senso salvaguardare la lingua? E che lingua salvaguardiamo? La lingua dei rimpianti e dei rimorsi di un popolo perennemente con la valigia in mano?

Sono domande alle quali bisogna rispondere se veramente vogliamo trovare una soluzione al problema. Rispondere a domande tipo: che cos’è una lingua minoritaria? E in funzione di chi e di che cosa si attuano programmi di salvaguardia linguistica? Di certo una lingua minoritaria non rappresenta chi in essa vede soltanto il risvolto economico della questione; non sono, fortunatamente, lingue da «curriculum vitae et studiorum». Le lingue minoritarie sono di chi le parla e di chi in esse ci si rispecchia tutti i giorni, lontano dai centri di potere. Sono le «lingue del cuore» per chi veramente queste lingue le usa col cuore e non per il portafoglio o per il curriculum! Per chi in esse ci vede una parte di se stesso, la parte più intima, che proprio grazie alla lingua trova espressione e diviene sentimento condiviso e quindi comunità.

Allora facciamo nostro l’auspicio che Cesare Pavese scrive nel suo libro «La luna e i falò» e proviamo ad invertire la rotta pensando a salvare i nostri territori e a non volerci sentire sempre e solo cittadini del mondo perché «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

 

Nicola Alfano