Stop globalizzazione, ricostruire la trama del locale

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papasidero calabria
Papasidero, un piccolo borgo in Calabria
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Non ci sono più dubbi sulla distruzione operata fino ad ora, né l’autosufficienza significa autarchia. Panoramica sulla ventata di rinnovamento che pervade gli intellettuali. Tutti i danni della destrutturazione operata

Abbiamo parlato dell’utopia della decrescita, di costruire cioè un utopia di un altro mondo desiderabile e vivibile per tutti. Un mondo dove ognuno possa esprimere al meglio se stesso e le sue potenzialità. Ma per rendere concreta questa utopia occorre non un mondo globale, ma locale.

Per contrastare la periferizzazione urbana e politica prodotta dalla società della crescita, la soluzione potrebbe essere quella di riprendere l’«utopia» dell’«ecomunicipalizzazione» di Murray Bookchin (Bookchin, Pour une municipalisation libertaire, Atelier de création libertaire, Lyon 2003). «Non è affatto assurdo — scrive Bookchin — pensare che una società ecologica possa essere costituita da una municipalità, ciascuna delle quali fornita da un “comune dei comuni” più piccoli […] in perfetta armonia con l’ecosistema» (citato da Alberto Magnaghi, Dalla città metropolitana alla (bio)regione urbana, in Anna Marson (a cura di), Il progetto di territorio nella città metropolitana, Alinea, Firenze 2006, p. 100). La riconquista o la reinvenzione dei beni comuni o dello spazio comunitario e l’autorganizzazione in «bioregioni» sono una illustrazione possibile di questa prospettiva.

La Rete del Nuovo Municipio

Secondo alcuni ci si trova di fronte ad un vero e proprio «dilemma democratico» che si può enunciare in questo modo: più una entità/unità politica è piccola e dunque direttamente controllabile dai suoi cittadini, più sono ridotti i suoi ambiti di sovranità. La capacità di decisione e di azione di una tale entità si esercita sulle questioni che travalicano i suoi limiti territoriali e dunque subisce l’influenza delle dinamiche esterne. D’altra parte, più l’entità territoriale è estesa, più si indeboliscono le opportunità di partecipazione dei cittadini. Questo è un dato di fatto, ma quel che conta principalmente è l’esistenza di un progetto collettivo radicato in un territorio inteso come luogo di vita comune e dunque da preservare per il bene di tutti. La dimensione non è più un problema topografico ma sociale.

Una delle iniziative più originali e più promettenti in questo campo è senza dubbio la Rete del Nuovo Municipio promossa in Italia. L’originalità di questa rete consiste nella scelta di una strategia fondata sul territorio, vale a dire nel concepire il locale come un luogo di interazione tra attori sociali, ambiente fisico e patrimoni territoriali. Questa esperienza riprende l’idea di «villaggio urbano» e la strada tracciata dai movimenti delle «città lente». Va subito detto che il progetto delle «città lente» non è né chiuso e né egoista, «ma al contrario presuppone aperture e un’idea generosa del dare e dell’accogliere» (Bonora P., Sistemi locali territoriali, transcalarità e nuove regole della democrazia dal basso, in Marson (a cura di), Il progetto di territorio nella città metropolitana, Alinea, Firenze 2006, p. 118).

Michael Singleton osserva che chi parla di locale e di comunità mettendo in dubbio la possibilità o l’opportunità di un universalismo politico astratto (cioè di un governo mondiale) «rischia molto di essere etichettato con tutti i nomi su cui la Modernità ha lanciato l’anatema: fascismo, nazionalismo, machismo, paternalismo, elitismo, passatismo… Come far capire che la decrescita non è un ritorno al comunitarismo più vieto (la piccola famiglia atomizzata, il quartiere esclusivo, l’egoismo regionale), ma una ritessitura organica del locale (che vuole permettere alle persone di stare di più insieme come lo sono state fino agli anni Sessanta, grazie, tra l’altro, alle scuole di villaggio e alle imprese «familiari», ai piccoli negozi e ai cinema di quartiere, invece di fare una vita da «pendolari» tra complessi scolastici, aree industriali e centri commerciali di periferia)? (Singleton, M., Le Coût caché de la décroissance, in «Entropia», n. 1, novembre 2006, p. 52).

Autosufficienza non autarchia

Il programma di rilocalizzazione implica la ricerca in primo luogo dell’autonomia alimentare e successivamente di quella economica e finanziaria. È necessario conservare e sviluppare l’attività di base di ciascuna regione: agricoltura e orticoltura, preferibilmente organiche, nel rispetto delle stagioni. La linea da seguire sarebbe quella di tendere alla più completa autosufficienza nazionale, e poi regionale, garantendo un reddito soddisfacente ad agricoltori e stimolando rinnovamento delle comunità rurali basato su un’agricoltura contadina, sostenibile e biologica.

Questa autonomia, però, non significa assolutamente un’autarchia: «Si può commerciare con le regioni che hanno fatto la stessa scelta, “buttando a mare” il produttivismo: scambi equilibrati che rispettano l’indipendenza regionale, ovverosia commercio di eccellenze regionali prodotte senza sovraccaricare né gli uomini né gli ecosistemi (burro contro olive e così via)» (cfr. Hoogendijk W., The Economic Revolution. Towards a Sustainable Future by Freeing the Economy from Money-Making, International Books, Utrecht 1991).

Inoltre molto utile sarà anche tendere a ricercare l’autonomia energetica locale; tra l’altro, le energie rinnovabili si adattano ottimamente alle società decentrate, senza grandi concentrazioni umane.

Su questa scia si dovrebbe, poi, incoraggiare il commercio locale: un posto di lavoro precario creato nella grande distribuzione distrugge cinque posti di lavoro stabili nel commercio di prossimità (Jacquiau C., Les Coulisses du commerce équitable, Mille et une nuit, Paris, 2006).

Interessante a tal proposito è il dato fornito dall’Insee (Institut national de la statistique et des études économiques), secondo il quale la diffusione dei grandi magazzini (a partire dagli anni Sessanta) in Francia, ma vale lo stesso per l’Italia, ha fatto scomparire il 17 per cento delle panetterie (cioè 17.800), l’84 per cento delle salumerie (cioè 73.800), il 43 per cento di negozi di casalinghi (cioè 4.300). Quel che è scomparso, insieme a questi numeri, è una parte importante della sostanza stessa della vita locale, con il corrispondente disfacimento del tessuto sociale.

Infine, bisogna pensare ad inventare anche una vera politica monetaria locale. «Per mantenere il potere d’acquisto degli abitanti, i flussi monetari dovrebbero rimanere il più possibile nella regione, e anche le decisioni economiche devono essere prese il più possibile al livello regionale». Parole di esperto, e per la precisione uno degli inventori dell’euro.

Tutto ciò presuppone che si imbocchi, esplicitamente o implicitamente, la strada dell’utopia feconda della decrescita. Per fare questo, come affermava Yves Cochet «dobbiamo fin da adesso impegnarci nella vita municipale, partecipando alle elezioni, assistendo alle riunioni del consiglio, diventando membri della associazioni di cittadini che hanno come obiettivo i diversi aspetti della sobrietà: più spazi pedonali e piste ciclabili e meno automobili, più negozi di quartiere e meno supermercati, più palazzine e meno torri, più servizi di prossimità e meno distretti urbani» (Cochet Y., Pétrole apocalypse, Fayard, Paris 2003, p. 200). Bisognerebbe, in ultima istanza, per attuare vere iniziative locali di decrescita, sostituire l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) con l’Organizzazione mondiale della localizzazione (Oml), il cui slogan deve essere «Proteggere il locale globalmente» (cfr. Cochet Y., op. cit., p. 224).

 

Nicola Alfano