Quella crescita non fu virtuosa

2480
desertificazione aridità clima
Tempo di lettura: 6 minuti

A conti fatti, i circoli virtuosi si sono rivelati piuttosto perversi per molti punti di vista. Lo sconvolgimento climatico che ci minaccia oggi è il frutto delle «follie» di ieri. Allora occorre pensare alla decrescita come l’articolazione di otto cambiamenti interdipendenti che si rafforzano reciprocamente. Si tratta delle cosiddette «otto R» proposte a suo tempo da Serge Latouche

Oggi più che mai, lo sviluppo sacrifica le popolazioni e il loro benessere concreto e locale sull’altare del «benavere» astratto e deterritorializzato. Chiaramente, questo sacrificio in favore di un popolo mitico avviene a vantaggio di una determinata classe di persone (le imprese transnazionali, i responsabili politici, i tecnocrati, le mafie). È chiaro che oggi la crescita è un affare redditizio solo al prezzo di farne sopportare il peso e il prezzo alla natura, alle generazioni future, ai consumatori, agli operai, ecc. Una rottura di questo sistema è indispensabile. Quel che è necessario è una rivoluzione culturale che porti ad una rifondazione della politica.

Il progetto della decrescita è un’utopia, una fonte di speranza, un sogno. Un sogno che non si rifugia nell’irrazionale, ma che tenta piuttosto di esplorare le possibilità oggettive della sua realizzazione.

«Senza l’ipotesi che un altro mondo è possibile non c’è politica, c’è soltanto la gestione amministrativa degli uomini e delle cose». Così si esprime Geneviève Decrop (Decrop G., Redonner ses chances à l’utopie, in «Entropia», n. 1, novembre 2006, p. 81); ed in effetti la decrescita presuppone un progetto fondato su un’analisi realistica della situazione, anche se questo progetto non è immediatamente traducibile in obiettivi realizzabili. Quello che si ricerca è la coerenza teorica generale.

Abbiamo parlato dei cosiddetti «trenta gloriosi», i tre decenni dal 1945 al 1975, per i quali professori di economia e tecnocrati si riempivano la bocca parlando, soprattutto negli anni Sessanta, di circoli virtuosi della crescita. Però in quel periodo, apparentemente florido per l’economia e la società nel suo complesso, hanno fatto seguito i «trenta pietosi». In realtà, a ben vedere, gli stessi «trenta gloriosi», se si fa un bilancio dei danni subiti dalla natura e dall’umanità, sono stati «trenta disastrosi». A conti fatti, i circoli virtuosi si sono rivelati piuttosto perversi per molti punti di vista. Lo sconvolgimento climatico che ci minaccia oggi è il frutto delle «follie» di ieri. Allora occorre pensare alla decrescita come l’articolazione di otto cambiamenti interdipendenti che si rafforzano reciprocamente. Si tratta delle cosiddette «otto R» proposte a suo tempo da Serge Latouche.

«Rivalutare», la prima di «otto R»

Noi oggi viviamo in una società basata su valori quali l’onestà, il servizio dello Stato, la trasmissione del sapere, il lavoro ben fatto, ecc. Ma, nonostante ciò, per dirla con Cornelius Castoriadis «è sotto gli occhi di tutti che questi valori sono diventati vuoti simulacri […], quel che conta è solo quanto denaro avete intascato, poco importa come» (Castoriadis C., Les Carrefours du labyrinthe, vol. 4: La Montée du l’insignifiance, Le Seuil, Paris 1996, p. 68).

In questo contesto si possono subito vedere quali siano i valori da rivendicare, quelli che dovrebbero avere la meglio sui valori (o meglio, sulla mancanza di valori) oggi dominanti. L’altruismo dovrebbe prevalere sull’egoismo, la collaborazione sulla competizione sfrenata, il piacere del tempo libero e l’ethos del gioco sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, il gusto della bella opera sull’efficienza produttivistica e molti altri ancora. Questi sono i valori che assolutamente dobbiamo recuperare in quanto sono la base della nostra realizzazione e la nostra salvaguardia per il futuro.

Il filosofo John Dewey a suo tempo già denunciava la «cultura pecuniaria» e accusava il sistema scolastico di abbandonare il bambino al mondo della concorrenza anziché essere un laboratorio di cittadinanza. Cosa avrebbe detto se avesse conosciuto la società della comunicazione di oggi, con i suoi eccessi di manipolazione attraverso la pubblicità? Quel che oggi è necessario, è di passare dalla fede nel dominio sulla natura ad un inserimento armonioso nel mondo naturale. Sostituire, in un certo senso, l’atteggiamento del predatore con quello del giardiniere. Il mito tecnicistico e prometeico di una artificializzazione dell’universo è una forma di rifiuto del mondo e dell’essere.

La seconda delle «otto R» è riconcettualizzare

Il cambiamento dei valori dà luogo ad una visione diversa del mondo e dunque ad un altro modo di vedere la realtà. Riconcettualizzare, o ridefinire/ridimensionare, è essenziale, ad esempio, per i concetti di ricchezza e povertà. Come perfettamente indicato da Ivan Illich e Jean-Pierre Dupuy, l’economia trasforma l’abbondanza naturale in rarità con la creazione artificiale della mancanza e del bisogno attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione (cfr. Paul Dumouchel e J.-P. Dupuy, L’Enfer des choses, Le Seuil, Paris 1979; J.-P. Dupuy e J. Robert, La Trahison de l’opulence, PUF, Paris 1976).

Terza R è ristrutturare

Ristrutturare significa adeguare l’apparato produttivo e i rapporti al cambiamento dei valori. Questa ristrutturazione sarà tanto più radicale nella misura in cui il carattere sistemico dei valori dominanti sarà stato distrutto. È in gioco in questo caso il cammino verso una società della decrescita.

Quarta R è ridistribuire

La ristrutturazione dei rapporti sociali è già ipso facto una ridistribuzione. Questa riguarda la ripartizione delle ricchezze e dell’accesso al patrimonio naturale tanto tra il Nord e il Sud quanto all’interno di ciascuna società, tra le classi, le generazioni, gli individui. La ridistribuzione avrà un duplice effetto positivo sulla riduzione del consumo. Direttamente, ridimensionando il potere e i mezzi di consumo della «classe consumatrice mondiale» e in particolare dell’oligarchia dei grandi predatori. Indirettamente, diminuendo lo stimolo al consumo vistoso. Ridistribuire, allora, significa anche prelevare di meno in un’ottica di ridimensionamento del «debito ecologico» contratto soprattutto con i Paesi del Sud.

Quinta R è Rilocalizzare

Rilocalizzare significa principalmente produrre in massima parte a livello locale i prodotti necessari a soddisfare i bisogni della popolazione. Tutte le produzioni realizzabili su scala locale per bisogni locali dovrebbero dunque essere realizzati localmente. Se le idee devono ignorare le frontiere, al contrario i movimenti di merci e capitali dovrebbero essere limitati all’indispensabile. Tra l’altro, in un’ottica di costruzione di una società della decrescita serena, la rilocalizzazione non è soltanto economica. Sono anche la politica, la cultura il senso della vita che devono ritrovare un ancoraggio territoriale. Questo implica che qualsiasi decisione economica, politica o culturale che può essere presa a livello locale deve essere presa a tale livello.

Sesta R è ridurre

In primo luogo, ridurre significa diminuire l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare. Si tratta innanzitutto di limitare il sovraconsumo e l’incredibile spreco generato dalle nostre abitudini: basti pensare che l’80% dei beni immessi nel mercato sono utilizzati una sola volta per poi finire nella spazzatura. Basti considerare che oggi i paesi ricchi producono circa 43 miliardi di tonnellate all’anno di rifiuti. Ma oltre a ridurre i rifiuti, altre riduzioni sono auspicabili.

Ad esempio il turismo di massa; nel momento in cui il miliardario britannico Richard Branson, proprietario della Virgin, vuole mettere il turismo spaziale alla portata di tutti, anche il più ortodosso dei quotidiani statunitensi, il «Financial Times», afferma che «il turismo sarà sempre più considerato come il pericolo pubblico mondiale numero 1 dell’ambiente» (cfr. «Financial Times», 10 novembre 2006). Indubbiamente iscritti nell’animo umano, il desiderio di viaggiare e il gusto dell’avventura sono una fonte di arricchimento che non si deve estinguere, ma la legittima curiosità e la scoperta culturale sono state trasformate dall’industria turistica in consumo in un consumo mercificato distruttore dell’ambiente, della cultura e del tessuto sociale dei paese «obiettivo». Bisogna reimparare la saggezza del passato: gustare la lentezza e apprezzare il nostro territorio.

Infine, ridurre il tempo di lavoro è un elemento essenziale. Si tratta, sostanzialmente, di ripartire il lavoro in modo che tutti quelli che lo desiderano possano avere un’occupazione. Si tratta, anche qui, di disintossicarsi dalla «dipendenza da lavoro», che è un elemento importante del dramma produttivista. Non sarà possibile costruire una società serena delle decrescita senza ritrovare le dimensioni della vita che sono state rimosse: il tempo per fare il proprio dovere di cittadino, il piacere della produzione libera, artistica o artigianale, la sensazione del tempo ritrovato per il gioco, la contemplazione e la meditazione, la conversazione o semplicemente la gioia di vivere.

Riutilizzare e riciclare sono la settima e ottava R

In questo caso, nessuna persona di buon senso contesta la necessità di ridurre lo spreco sfrenato, di combattere l’obsolescenza programmata delle attrezzature e di riciclare i rifiuti non immediatamente riutilizzabili. Le possibilità sono numerose e diverse sono state sperimentate su scala ridotta. Anche per quel che riguarda il riciclo e il riutilizzo dei materiali, quel che manca sono gli stimoli necessari a spingere imprese e consumatori ad imboccare una via virtuosa. Ma se questi stimoli sono abbastanza facili da concepire, al contrario è la volontà politica a programmarli e attuarli che fa difetto.

Tutto quanto è stato fin qui detto, delinea un’utopia; si tratta di costruire un altro mondo, desiderabile, necessario e possibile se lo vogliamo. In questo progetto, l’autonomia va presa in senso forte, etimologico in opposizione all’eteronomia della «mano invisibile» del mercato, alla dittatura dei mercati finanziari e dei diktat della tecnoscienza nella società ultramoderna. Quest’autonomia non implica una libertà senza limiti. Come ci ricorda Aristotele, per imparare a comandare bisogna cominciare a saper obbedire. Nella prospettiva di una società di cittadini liberi, il «sapere» dell’obbedienza si deve intendere come un apprendistato, una sottomissione non servile alle leggi che si è dati. E da ciò discende anche l’importanza della convivialità. Che reintroduce lo spirito del dono nel commercio sociale, là dove vige la legge della giungla e in questo modo riannoda la philía (l’«amicizia») aristotelica.

 

Nicola Alfano