E alla fine siamo arrivati ad un bivio…

1824
clima siccità
Tempo di lettura: 10 minuti

Clima, povertà, mercato, guerra…

Intervista a Gianfranco Franz autore di un notevole lavoro di sintesi sui più strategici problemi con cui l’umanità si sta confrontando

Franz Copertina«L’Umanità a un bivio. Il dilemma della sostenibilità a trent’anni da Rio de Janeiro» è il titolo dell’ultimo lavoro di Gianfranco Franz. Un punto ragionato e aggiornato sulla situazione attuale dell’equilibrio che stiamo cercando di raggiungere a livello globale.
Il libro ripercorre il pensiero ecologico dalla metà del XX secolo ad oggi con approfondimenti multidisciplinari che intrecciano storia, filosofia, geopolitica, studi culturali, scienze naturali, economia e studi urbani, ma anche cinema, letteratura e arti visive, rileggendo i contributi di quelle che l’Autore ha definito le Beautiful Mind del pensiero ecologico: Rachel Carson, Edgar Morin e Lynn White, Barry Commoner e Gregory Bateson, Donella Meadows e il gruppo del Club di Roma di Aurelio Peccei, fino ad arrivare a Paul Crutzen, lo sdoganatore del concetto di Antropocene, già intuito nella seconda metà del 1800 dalla fertile mente dell’abate Antonio Stoppani che, inascoltato, aveva intravisto l’avanzare dell’era Antropozoica.
Il libro sarà a breve disponibile nelle librerie ma noi abbiamo voluto anticipare i tempi e porgere alcune domande al professore Gianfranco Franz ordinario di Politiche per la Sostenibilità e lo Sviluppo Locale dell’Università di Ferrara.

Professor Franz, nel suo libro di imminente pubblicazione («L’Umanità a un bivio. Il dilemma della sostenibilità a trent’anni da Rio de Janeiro», Mimesis Editore), lei fa il punto a cui è arrivata l’umanità, descrivendo pericoli e urgenza di soluzioni. A 30 anni da Rio, dopo una serie interminabile di incontri per arrivare a soluzioni condivise, lei nutre ancora qualche speranza sul futuro dell’uomo?

In queste settimane di guerra in Ucraina e di fronte alla morte, all’entusiasmo con cui si parla di riarmo generalizzato è difficile nutrire speranze nel genere umano. Lo stesso si può dire di fronte ai tanti fallimenti di cui è lastricata la strada verso la sostenibilità. Trent’anni fa c’era un entusiasmo, se vogliamo anche eccessivo, che ci fece ritenere come ovvio il fatto che l’umanità avrebbe compreso e avrebbe cambiato direzione. Invece, anche se tanti progressi sono stati fatti nella ricerca di una sostenibilità possibile, bisogna riconoscere che le cose sono peggiorate e non solo per «colpa» di paesi che sono giunti ad un migliore stadio di benessere materiale rispetto al 1992. Oggi, infatti, parliamo non più di riscaldamento globale o di cambiamento climatico (una definizione già edulcorata rispetto alla prima) ma di vera e propria crisi climatica. Una crisi gravissima e che accompagnerà le giovani generazioni per due secoli almeno.

Se avesse il potere di comandare sulle politiche globale, da dove inizierebbe ad ordinare i comportamenti umani?

Pensare di avere il potere mi pone sempre a disagio perché so che su certe questioni potrei diventare un giacobino e sappiamo che piega prese l’oltranzismo dei Danton e dei Marat. Ma il gioco di ruolo è interessante perché il potere richiede sempre, per salvarsi, un certo equilibrio. Penso che inizierei dal lusso, che è sempre esistito e sempre esisterà ma deve essere pagato.

Applicherei delle sovrattasse di scopo a tutti i prodotti e i servizi di lusso con l’obiettivo di lenire la povertà di tanti e i costi ambientali che facciamo pagare agli ecosistemi per produrre tante cose belle: automobili, gioielli, panfili, viaggi di piacere e tante altre cose ancora.

Proseguirei con una revisione complessiva dei trattati internazionali per il libero commercio quelli, per intenderci, che dalla metà degli anni 80 (Uruguay Round) hanno aperto la strada alla globalizzazione. Non ha senso consumare in Europa, dopo aver emesso tonnellate di CO2, uva e frutta prodotte in Cile e in Sudafrica quando in quei paesi ci sono ancora milioni di persone che non mangiano a sufficienza; non ha senso comprare in Italia magliette prodotte in Bangladesh. D’altro canto non ha neppure senso pensare che da noi si possano produrre magliette a basso costo. Allora bisogna pensare e lavorare per una globalizzazione regionalizzata: l’Europa del sud può comprare magliette prodotte in paesi come l’Egitto o del Maghreb. Sono almeno 5.000 anni che l’uomo commercia nel bacino del Mediterraneo! L’autarchia è insensata ma insensata e insostenibile è anche la totale interdipendenza globale. Lo chiarisce benissimo Jared Diamond al termine del suo magnifico e sempre attuale «Collasso».
La terza misura che imporrei a livello globale sarebbe una revisione della famosa e inapplicata Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, una revisione sempre più urgente e da applicare a tutte le operazioni che vengono effettuate grazie a internet. Ad una nuova e impietosa Tobin Tax applicherei una Carbon Tax globale su tutte le transazioni relative sia al mercato delle energie fossili (carbone, petrolio, gas), sia al valore aggiunto che si genera dalla loro raffinazione e trasformazione. A queste tasse di pochi centesimi per ogni unità di misura da definire ne aggiungerei una specifica da applicare a tutte le transazioni del commercio elettronico. Ognuna di queste tasse sarebbe di scopo: eradicare la povertà con i proventi della Tobin; recuperare e proteggere gli ecosistemi con quelli della Carbon; sostenere le piccole attività a scala famigliare e mantenere in vita il commercio di prossimità nelle città per la tassa sull’e-commerce.
Poi bisognerebbe adottare una miriade di piccoli ma significativi provvedimenti, dal livello globale fino alla scala dei quartieri residenziali.

inquinamento smogDa quello che scrive pare che lei conti molto sulle capacità di responsabilità dell’uomo a proposito del risparmio energetico. Ma ci crede realmente o è un auspicio? La linea di crescita seguita dall’uomo: dall’accumulo delle ricchezze all’uso sempre più cogente della forza, dalla presenza mai realmente combattuta della schiavitù ed anzi alimentata come forza lavoro indispensabile all’invasività ormai insopprimibile dell’economia… tutto contraddice la possibilità di rinsavimento dell’uomo.

Anche io ciclicamente cedo allo sconforto. Ma ho i miei studenti all’università che me ne tirano fuori con il loro entusiasmo di ventenni per le cose che si possono e si devono fare. Come lei giustamente osserva il «progresso» umano è progredito in senso opposto da quello che sarebbe stato e sarebbe ragionevole immaginare.

A me la cosa che continua a sconvolgermi ancora di più del collasso ambientale a cui stiamo portando il Pianeta è il collasso morale con cui si produce povertà, sfruttamento, violenza e sopruso su miliardi di persone, anche nei nostri Paesi che continuiamo a ritenere avanzati.

Io credo che sarà il clima a farci rinsavire. So che non bisogna fare le «Cassandre» perché non si viene ascoltati, ma so che i disastri che ci colpiranno con sempre maggiore frequenza saranno la prova più efficace per far rinsavire anche gli indifferenti. Ha ragione Papa Francesco quando dice che l’Uomo perdona a volte, Dio perdona sempre, la Natura non perdona mai e non può farlo, aggiungo io, non perché sia cattiva o matrigna, come si diceva un tempo, semplicemente perché risponde a leggi meccaniche e fisiche che noi abbiamo manomesso, a volte inconsapevolmente perché il sogno del benessere è stato di una forza trainante eccezionale. Io voglio essere ottimista e continuare a sperare che prima o poi i poveri e gli sfruttati rialzino la testa e che prima o poi anche i governanti e i popoli capiscano che non possiamo continuare a crescere illimitatamente. Io non amo la definizione «decrescita felice». Sono assolutamente convinto che si debba avviare una decelerazione e una decrescita, ma non credo che sarà felice. Combatto da tutta la vita contro il mio sovrappeso e so che la dieta, una decrescita, è sempre infelice. Bisogna trasformare l’infelicità materiale in una felicità spirituale, disaccoppiare la felicità che ci è offerta dai beni materiali da quella che ci è offerta dalla cultura, dall’arte, dal tempo libero; bisogna liberarsi da termini come produttività, competitività e rivalutare concetti come sobrietà, parsimonia, finanche ozio!
La vera sfida è culturale non tecnologica. La cultura relativamente di massa della sostenibilità, dell’ambientalismo e anche quella della pace hanno poco più di 70 anni di evoluzione. Il concetto di sostenibilità ne ha poco più di 30. È ancora un adolescente rispetto alla veneranda età, in alcuni casi plurisecolare, delle culture del progresso umano che, se vogliamo, possiamo far risalire a grandi pensatori rinascimentali come Pico della Mirandola o Erasmo da Rotterdam, passando per il così detto errore epistemologico di Cartesio per arrivare all’attuale dittatura dell’economia e dell’economicismo sul pensiero di chiunque e a qualsiasi latitudine. Questo è davvero un problema culturale sostanziale. L’economia è stata trasformata in fine da mezzo che era, si definisce scienza essendo a fatica una disciplina caratterizzata da un coacervo di pratiche talvolta stregonesche. Non è facile riavvolgere il nastro, ma bisogna farlo e perché questo avvenga abbiamo un bisogno estremo di narrazioni, racconti, di letteratura e di arte da opporre all’aridità dei numeri. Ad un grafico statistico opponiamo una coppia di danzatori: ricordiamoci del quadro di Henri Matisse!
Sembra folle sostenere questo ma fin dall’epoca delle caverne gli esseri umani si sono nutriti di miti, di immagini e favole, romanzi e racconti sul senso della vita. Fino a che rimarremo schiavi della statistica, del Pil, dell’ideologia della crescita non riusciremo a imboccare una strada diversa da quella attuale che con tutta certezza ci conduce al disastro. Ne parlo sempre ai miei studenti di Economia dell’Università di Ferrara e loro capiscono a differenza della maggior parte dei colleghi.

Infine lei punta tutto sulla capacità culturale dell’uomo, vera chiave di volta capace di modificare il percorso umano. È certamente vero ma i tempi non giocano a favore. Da una parte ci sono forze che operano per impedire una crescita culturale, dall’altra aspettare che le nuove forze arrivino nelle varie stanze dei bottoni rendono praticamente impossibile la svolta in tempi brevi…

Mi verrebbe voglia di essere sinteticamente osceno e dire che bisogna fare il tifo per i tifoni. In parte ho già dato alcune risposte. Ma qui posso precisare meglio. In tempi brevi non raggiungeremo risultati significativi. Qui emerge il mio pessimismo di fondo o se vogliamo, gramscianamente, il pessimismo della ragione a cui si oppone il mio ottimismo della volontà. Continueremo a usare idrocarburi ancora per molto tempo perché conviene ancora a tutto il sistema produttivo; ma bisogna imboccare la transizione. Su questi temi anche noi che ci occupiamo e ci preoccupiamo di ambiente, ecologia, sostenibilità, giustizia (sociale, climatica, alimentare) dobbiamo essere pragmatici. Bisogna fare proposte concrete all’insegna del gradualismo, altrimenti ogni idea di cambiamento sarà rigettata. Aver urlato contro il motore a scoppio per decenni ci sta portando verso l’elettrificazione dell’auto. Una non risposta, un processo che creerà danni ambientali enormi e che creerà milioni di disoccupati in tutto il mondo. Bisogna piuttosto puntare a rendere difficile e costoso l’uso dell’auto, a rendere vantaggioso ed economico, addirittura gratuito (parola ormai considerata insultante) l’uso dei mezzi pubblici. Una famiglia di 4 persone per fare un viaggio di media-lunga percorrenza in treno spende di più che utilizzando l’auto. Dobbiamo puntare su piccoli grimaldelli per disarticolare il sistema dell’insostenibilità. Il conservatorismo e il capitalismo lo hanno capito da decenni: le riforme che hanno impoverito le classi medie dei paesi occidentali sono state realizzate in decenni, ponendo un piccolo granello alla volta nell’ingranaggio del sistema. Parlavo prima dell’Uruguay Round: 15 anni di riunioni di mandarini del capitalismo per arrivare agli accordi che hanno prodotto la globalizzazione. Se ne sono accorti in pochissimi. E quando nel 2001 al G8 di Genova i pochi che se ne erano accorti manifestarono il loro dissenso furono criminalmente repressi.
In Italia si è distrutta la cultura del lavoro, la sicurezza sul lavoro, il senso di sicurezza nei giovani che iniziano una carriera professionale manomettendo volta a volta tutta la giurisprudenza sui rapporti di lavoro, dalle Leggi Treu e Biagi in avanti.

I fautori del principio di sussidiarietà per il quale il privato è sempre meglio del pubblico hanno impiegato anni per manomettere il funzionamento dello Stato e dei servizi pubblici. Con il blocco del turn-over imposto dal Ministro Tremonti nel 2008 si è scassato lo Stato italiano e le conseguenze le vediamo nella sanità, nella scuola, in tutte le funzioni pubbliche.

La Business Roundtable (Brt), l’associazione di tutte le più grandi imprese degli Stati Uniti fu fondata nel 1972, dopo la pubblicazione del celebre rapporto Mit dal titolo «The Limits to Growth», voluto da Aurelio Peccei e dal Club di Roma proprio 50 anni fa. La Brt ha avuto un’enorme influenza nel definire gli obiettivi e le politiche di neo-liberismo che solitamente si riconducono alle elezioni di Margaret Thatcher (1979) e di Ronald Reagan (1981). In realtà, il terreno fu culturalmente dissodato negli anni precedenti. Anche l’ambientalismo dovrebbe agire con una tattica di gradualismo e con una comunicazione del tutto rinnovata. E, purtroppo, lo stato di salute dell’ambientalismo politico italiano ed europeo in genere è abbastanza grave.

guerra morteE poi c’è l’alea della violenza e dell’imbarbarimento di cui in questi giorni abbiamo una lacerante rappresentazione. Gli ingredienti della prepotenza, dell’accumulo di ricchezza, dell’uso smodato della falsa comunicazione, ci sono tutti. In tutte le guerre ci sono stati visionari ottimisti che hanno spinto alla ripresa e al coraggio. E meno male! ma ahimè non sono bastati. Non voglio essere a tutti i costi negativo ma mi consoli con una visione ottimistica e incoraggiante finale…

Quella fra Russia e Ucraina è una guerra criminale come lo sono quasi tutte le guerre.
Criminale è chi ha attaccato e su questo non ci possono essere dubbi: il presidente Putin, un criminale come tutti gli autocrati. Ma è criminale il contesto complessivo: chi ha illuso l’Ucraina che sarebbe stata accolta nel campo occidentale senza alcun problema per poi abbandonarla fornendole «solo» armi; chi ha sperato che Putin «perdesse la ragione» di fronte all’ampliamento della Nato per ovvii e contrari obiettivi di potenza; chi ha soffiato sul fuoco con un occhio ai problemi politici interni; tutta l’industria degli armamenti; tutta l’industria ormai marcia dell’informazione diventata infotainment; criminali sono i sistemi di propaganda russo, ucraino e occidentale tutto; e così via.
Come sempre in questi casi a lasciare senza parole è il trionfo del vecchio adagio: pietà l’è morta. Lo comprendo e comprendo le retoriche, ma non le accetto perché è sempre «la meglio gioventù» a finire sottoterra per ordine di settuagenari mai stati giovani. Mio figlio maggiore ha l’età per trovarsi da una parte o dall’altra di questa guerra e questo pensiero è per me intollerabile. Intollerabili sono le immagini che vediamo su tutte quelle inutili morti. E nella morte non c’è distinzione. Io sono rimasto senza parole nel non aver sentito neppure una parola di pietà per quelle centinaia di giovani marinai russi morti annegati dentro allo strumento di morte che facevano funzionare. La morte di quei ragazzi non è meno importante di quella dei loro nemici e di tutti i civili ucraini. Ma è sempre andata così: i buoni e i cattivi.
Il problema è che non bisogna assuefarsi e neppure arrendersi allo sconforto. Anche questa guerra finirà. Lascerà un paese completamente distrutto e impoverito. Ne impoverirà un altro già malandato, la Russia, ma impoverirà anche noi che abbiamo vissuto per decenni nell’opulenza e nella pace (solo la nostra, perché della Siria, dell’Iraq, della Serbia, dello Yemen, dell’Afghanistan, del Congo e della Palestina ci siamo presto dimenticati). Saremo impoveriti dai nuovi investimenti in armamenti e dai conseguenti tagli allo stato sociale, alla sanità, alla scuola. Io spero che ci sia un moto di reazione, soprattutto da parte dei giovani, che sono quelli che da sempre vengono mandati al macello. Tocca ai giovani reagire e a chi ha la mia età tocca spronarli a pensare diversamente, ad agire diversamente. Il Cile ha vissuto un’orrenda dittatura ma oggi è fra i paesi culturalmente più avanzati sui diritti, sulle minoranze, sull’ambiente. Amici mi dicono: non puoi paragonare l’Italia al Cile. Invece sì. Non sono i 35 milioni di abitanti in più dell’Italia a fare la differenza. Non è detto che i giovani politici cileni riescano a raggiungere tutti gli obiettivi che si sono preposti, ma hanno già vinto una battaglia culturale di grandissima portata.
In definitiva penso che non ci sia più tempo, ma siamo ancora in tempo. Non bisogna far prevalere lo sconforto ma neppure l’ansia per quanto accadrà. Il clima danneggerà fortemente le giovani generazioni nei prossimi 30 o 40 anni e per almeno altri 100 bisognerà imparare ad adattarsi a condizioni progressivamente diverse. In molti perderanno molti vantaggi, mentre a mantenerli saranno in pochissimi perché è sempre stato così; ma bisogna pensare ai molti. L’essere umano si è sempre adattato e saprà farlo anche nel prossimo futuro, a patto che s’imbocchi davvero un’altra strada. Sarà la Natura a farcela imboccare.

Ignazio Lippolis