L’autonomia differenziata danno per i poveri e l’ambiente

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Italia
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֎Ma non si vede nessuna azione seria per costruire un’opposizione alla proposta di legge. Va contrastato l’attuale schema culturale che propone come nemici non le disuguaglianze, la povertà, la crisi climatica, il rancore come strumento per costruire ipotesi identitarie, ma i poveri, i migranti, gli «immorali» e gli ecologisti֎

Sono d’accordo con Gianfranco Viesti che in merito alla proposta di legge sull’autonomia differenziata ha titolato un suo libro: «La secessione dei ricchi».
Sì, perché di questo si tratta: di un’idea di Stato che premia chi ha di più e condanna alla residualità chi ha meno, chi fa più fatica, chi già oggi paga il prezzo di disuguaglianze (sociali, economiche, culturali) che, al contrario del mantra neoliberista di questi anni, non sono il prezzo inevitabile da pagare allo sviluppo ma il frutto di politiche sbagliate.
La legge sull’autonomia differenziata se approvata, così come si va delineando, rappresenta una sorta di «svuotamento» della Costituzione. Sancirebbe, innanzi tutto, un paese diviso in due, dove non tutti e tutte potrebbero godere degli stessi diritti o accedere alle stesse opportunità.
Verrebbe meno, infatti, la responsabilità e il dovere costituzionale dello Stato di garantire le pari opportunità e l’accesso universale a quella ricchezza collettiva che dà coerenza all’art. 3 della Costituzione: il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona.
D’altra parte la volontà di questo Governo di andare verso tale direzione (a volte percorrendo con convinzione e velocità direzioni aperte dai governi precedenti) emerge in modo chiaro e trasversale in molte delle politiche messe in atto in questi mesi.
Per fare solo qualche esempio. La cancellazione del reddito di cittadinanza per sostituirlo con una misura categoriale che divide i poveri tra buoni e cattivi (perché il problema non è più contrastare la povertà ma come trattare i poveri), peraltro introducendo, unico esempio in Europa, una misurazione dell’occupabilità su base anagrafica e familiare e non invece sulla distanza di ogni persona dal mercato del lavoro.
La spinta a precarizzare ulteriormente la condizione dei lavoratori e delle lavoratrici (con la cancellazione dei limiti per il datore di lavoro di utilizzare i contratti a tempo determinato, o con l’innalzamento, in alcuni settori del mercato del lavoro dove già oggi è più forte il lavoro sfruttato, della soglia economica in cui si possono usare i voucher).
L’insieme di provvedimenti fortemente «restauratori» e conservatori, accompagnati da un fortissimo senso di rivalsa culturale, sui temi delle differenze, dei diritti civili, della famiglia, spesso sommati a un approccio marginalizzante e repressivo nei confronti dei disagi, delle marginalità, della conflittualità sociale come è avvenuto in modo lampante e vergognoso con il decreto Caivano.
I primi segnali di politiche fiscali che mirano in modo evidente alla cancellazione della progressività, che, come sappiamo, è prima garanzia di quella distribuzione di ricchezza che consente lo sviluppo di servizi e opportunità, in primis, su salute, educazione, trasporti, contrasto alle povertà e alle disuguaglianze.
Per altro in un quadro dove a tutto questo si sommano politiche che strizzano l’occhio a un ritorno al fossile, con qualche slancio in avanti verso il nucleare, e dove la crisi climatica e ambientale viene sminuita come una questione tutto sommato residuale o comunque ben meno grave di come viene raccontata dalla sinistra e dagli ambientalisti. Questi ultimi, nella narrazione sovranista e della destra, quelli che in quanto benestanti si possono permettere di occuparsi di ambiente, animali, piante.
Si evidenzia, peraltro, che la differenziazione prevista in Costituzione e insita nell’autonomia non può essere messa in stretta relazione con tutti gli altri principi fondamentali con cui la Costituzione segna in modo irrevocabile la nostra Repubblica.
In modo particolare con quello di uguaglianza sostanziale, che chiama in causa il pieno sviluppo della personalità di ciascuno e l’effettiva partecipazione di tutti alla vita economica, politica e sociale del Paese.
Ci si riferisce al collante che consente alla nostra Repubblica di essere una e di restare indivisibile, di rendere permanente il processo di unificazione nazionale tramite la lotta alle diseguaglianze tra persone, tra gruppi e tra territori.
Il regionalismo, dunque, pur se basato sulla differenziazione, non può assolutamente trasformarsi in un moltiplicatore delle diseguaglianze, pena il venir meno dell’adempimento dei «doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale» di cui all’art. 2 della Costituzione.
C’è bisogno, al contrario, di un regionalismo ripensato e organizzato su base solidaristica in grado di ridurre sempre più le disuguaglianze territoriali e non già di «fughe in avanti» verso differenziazioni territoriali ulteriori che potrebbero irrimediabilmente compromettere l’unità del Paese. Una unità che già scricchiola pesantemente sotto il peso delle attuali differenziazioni territoriali. A partire dalla scuola.
Secondo la Svimez, infatti, un bambino di Napoli, o che vive nel Mezzogiorno, frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord. È questa la drammatica fotografia emersa in occasione dell’incontro «Un paese due scuole» organizzato a Napoli da Svimez e L’Altra Napoli onlus, in cui ci si è confrontati sui divari di cittadinanza, tra istituzioni, esperti della scuola, della cultura e del terzo settore.
L’ultimo rapporto Svimez evidenzia come i servizi socio-educativi per l’infanzia sono caratterizzati dall’estrema frammentarietà dell’offerta e da profondi divari territoriali nella dotazione di strutture e nella spesa pubblica corrente delle Amministrazioni locali.
Sono anni che si ammonticchiano studi e ricerche sull’abbandono scolastico precoce. In molte regioni meridionali sono tanti i giovani che hanno lasciato la scuola con al massimo la licenza media. Un fenomeno che si può sintetizzare nel progressivo allontanamento dal sistema educativo. In alcuni casi esplicito: con l’interruzione del percorso di studi. In altri implicito: i giovani terminano gli studi ma senza competenze adeguate. Questa situazione colpisce soprattutto ragazze e ragazzi con alle spalle le famiglie più fragili. Quelle che per motivi diversi hanno meno risorse, non solo economiche, ma anche culturali e sociali, da investire sull’educazione dei propri figli. Danneggiando quindi le aree del paese più deprivate e maggiormente segnate dalle disuguaglianze.
Un filo rosso negativo che neppure l’occasione del Pnrr rischia di poter definitivamente spezzare. A chi sono andati, per esempio, i fondi Pnrr per il piano ֿ«Scuola 4.0»? Stiamo parlando del piano con cui l’Italia punta a trasformare le aule in ambienti innovativi e connessi e a creare laboratori per le professioni digitali.
E proprio nelle regioni del Sud, quelle che hanno, fra l’altro, più bisogno di posti pubblici di asilo nido, si sono registrate le maggiori difficoltà.
Ma una frattura strutturale Nord-Sud che sta per essere normativamente legittimata dall’autonomia differenziata, la si avverte, ahimè notevolmente, nel Servizio sanitario nazionale che non garantisce più equità di accesso alle prestazioni sanitarie e sta inesorabilmente scivolando verso 21 sistemi sanitari regionali basati sulle regole del libero mercato e con un Sud ove avanza sempre di più il «deserto sanitario».
La sanità è sempre più nelle mani dei privati (dei 3 miliardi destinati al Fondo sanitario dalla recente manovra «inemendabile» delle destre e che non risolvono affatto la grave carenza di risorse, 5-600 milioni saranno utilizzati per comprare visite specialistiche ed esami diagnostici presso strutture convenzionate) e sempre più diseguale. Per di più, non sempre a costi maggiori corrisponde efficienza dei servizi, a dimostrazione che la regionalizzazione ha prodotto più guasti che qualità.
Eppure, intervenendo a Torino al recente Festival delle Regioni, la presidente Meloni, pur prendendo atto che «siamo una Nazione nella quale i divari tra città e aree interne, tra Nord e Sud, tra costa tirrenica e costa adriatica, tra pianura e montagna, sono sempre molto evidenti e per paradosso rischiano di aumentare», ha aggiunto (senza curarsi della palese contraddizione) che «l’autonomia differenziata proseguirà senza stop».
Va evidenziato che il disegno di legge promosso da Calderoli non interviene direttamente sulla Costituzione. Si limita a fissare un percorso e alcune regole che le regioni intenzionate a richiedere più autonomia dovranno seguire. Ed è un percorso piuttosto articolato, che prevede negoziati tra governo e giunte locali, e poi varie delibere da parte del Consiglio dei ministri e della Conferenza unificata (quella che coinvolge ministeri, regioni ed enti locali) intervallate da dibattiti e pronunciamenti del parlamento.
Ma soprattutto il disegno di legge stabilisce che prima di avviare questi negoziati finalizzati a devolvere maggiori competenze alle regioni vengano definiti i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), cioè i servizi minimi che lo Stato deve garantire in ogni parte del suo territorio su settori fondamentali (scuola, trasporti, sanità, per esempio). Questo serve a scongiurare il rischio che l’autonomia mantenga o addirittura aumenti le divergenze territoriali.
Ovviamente garantire questi servizi ha un costo, ed è questo il maggior problema di questa riforma: trovare le risorse per finanziare i Lep.
Durante la sua audizione al Senato, il ministro dell’Economia Giorgetti ha evitato di rispondere a una domanda che gli avevano fatto alcuni esponenti del Partito Democratico su questo punto. Al termine del suo intervento, in via informale, ha poi detto ai senatori presenti che della definizione dei Lep e del loro finanziamento «se ne riparla dopo l’approvazione del disegno di legge di Calderoli».
In audizione presso la commissione Affari costituzionali del Senato, il prof. Sabino Cassese ha parlato dell’«avvio di un percorso» che sembra essere molto lungo per individuare i Lep e capire come realizzarli: «Richiederà un impegno necessariamente pluriennale», ha detto. «Non si può pensare che da un giorno all’altro, se si vuole mantenere l’equilibrio di bilancio dello Stato italiano, vi sarà una somma stanziata adeguata a raggiungere certi obiettivi che sono definiti nei Lep». Poi ha aggiunto: «Non si può pensare che da un giorno all’altro i Lep vengano assicurati perché per assicurarli in molti casi, non sempre, occorre che siano accompagnati da delle cifre».
Il richiamo di Cassese all’equilibrio di bilancio non è casuale. Mentre infatti la legge di bilancio dello scorso anno prevedeva che la determinazione dei Lep sarebbe dovuta avvenire solo a patto che non comportasse maggiori previsioni di spesa, il disegno di legge sull’autonomia differenziata «ammette la possibilità che dalla loro determinazione possano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica; in questo caso il trasferimento delle funzioni dovrà essere preceduto dallo stanziamento delle necessarie risorse».
Tutto ciò premesso, nel condividere una piattaforma comune che consenta di ribaltare l’attuale schema culturale che propone come nemici non le disuguaglianze, la povertà, la crisi climatica, il rancore come strumento per costruire ipotesi identitarie, ma i poveri, i migranti, gli «immorali» e gli ecologisti, plaudo acchè tutte le forze che credono nei valori espressi dalla Costituzione, che sono contrarie all’autonomia differenziata e allo stravolgimento della Repubblica parlamentare, e che ritengono la lotta alle disuguaglianze presupposto di uno sviluppo giusto, si ritrovino nelle piazze per manifestare contro questa manovra scellerata, ritrovando senso e prospettive condivise.

 

Francesco Sannicandro