Il problema più grosso non è l’estinzione delle specie ma la scomparsa o la riduzione degli habitat, cioè delle porzioni di ambiente con caratteristiche simili che ospitano un determinato gruppo di specie, o comunità
Tutti i bimbi sono attirati dagli animali, anche da quelli che gli adulti considerano brutti e cattivi. Poi, con il procedere dell’educazione, la biofilia viene canalizzata verso poche specie (il cagnolino, il gattino) e il resto si perde. La Cultura, soprattutto nel nostro paese, è antropocentrica
Tutti i viventi parlano la stessa lingua, sono materia codificata secondo istruzioni genetiche a base di Dna e Rna. Questa comunanza di caratteristiche indica in modo inequivocabile che tutti i viventi sono imparentati tra loro e che, tutti, discendono da un antenato comune: la prima forma di vita. All’inizio della storia della vita, quindi, la biodiversità era molto bassa: c’era solo una specie. Una specie probabilmente simile a qualche batterio attuale, ancora in grado di sintetizzare materia vivente da materia non vivente e in grado di decomporre la materia vivente morta. Una specie, quindi, in grado di espletare da sola le funzioni di base che permettono il funzionamento di un ecosistema: produzione e decomposizione.
Se guardiamo la storia della vita a partire dalle testimonianze fossili vediamo due cose di valore generale: la vita non rimane mai uguale a se stessa; le specie del passato si sono tutte estinte. Alcune hanno lasciato discendenti che assomigliano ai loro progenitori, altre non hanno lasciato nulla, se non qualche impronta nella pietra. Questo fatto ci dice che l’estinzione è una cosa normale nel corso dell’evoluzione. E ci dice che l’estinzione può essere di due tipi. C’è l’estinzione per speciazione, quando una specie si estingue trasformandosi in un’altra (come è avvenuto per i progenitori di Homo sapiens), e c’è l’estinzione finale, quando una specie si estingue con la morte dell’ultimo individuo che la rappresenta, senza che da essa siano derivate altre specie. L’estinzione, in altre parole, è la morte di una specie. E la morte è parte essenziale della vita. La morte dei predecessori lascia spazio ai discendenti.
E allora perché ci preoccupiamo tanto dell’estinzione delle specie?
Bè, un conto è dire che la morte è una cosa normale e un conto è dire che è normale che la gente muoia come le mosche, magari per futili motivi. Parlando di estinzione, quindi, dobbiamo capire se ci troviamo di fronte a eventi ineluttabili, che fan parte del gioco della vita, o se si tratta di «morti» premature, magari evitabili.
L’uomo è un animale di grande successo. Ha colonizzato tutti gli ambienti terrestri e, nel farlo, ha piegato la natura ai suoi gusti e bisogni. Per esempio, ha tolto di mezzo tutti gli animali di grossa taglia che potevano dargli fastidio o che erano di suo gusto alimentare. Avendo una tecnologia che evolve ad un tasso molto più rapido dell’evoluzione degli altri viventi, l’uomo si è trovato in una posizione di grande vantaggio in quanto le sue prede o i suoi competitori non hanno avuto il tempo di coevolvere con lui. E se un predatore (noi) è molto evoluto può anche portare all’estinzione delle sue prede (se queste non sono in grado di evolvere con lui). Nel nostro caso la nostra evoluzione non è organica, ma tecnologica. E le scale temporali sono molto diverse. La vita non ce la fa a stare al passo con noi. Almeno per quel che riguarda gli organismi più vulnerabili.
Con la tecnologia (e tecnologia è l’uso di attrezzi, a partire dalle lance fino ai laser) l’uomo ha distrutto le foreste e ha coltivato la terra, ha ucciso tutti i mammuth, i lupi, le fiere in generale, e ha concesso di vivere solo alle piante che gli servono e agli animali con cui ha rapporti affettivi (cani, gatti) o alimentari (mucche, galline, pecore, maiali). Gli animali selvatici di grosse dimensioni sono scomparsi, allo stato selvatico. I pochi che son rimasti, come i cinghiali, li abbiamo immessi noi. Ma i cinghiali sono già troppi e ci danno fastidio. E rientriamo nel pensiero di limitarli, magari eliminarli…
In mare la situazione è appena appena migliore, ma siamo sulla buona strada per arrivare allo stesso scempio che già abbiamo fatto a terra.
Nel frattempo abbiamo acquisito una cultura sensibile ai problemi dell’ambiente, e ora ci preoccupiamo se qualche specie scompare. Meglio tardi che mai. Questa «cultura», comunque, è sensibile solo alle specie «carine», come delfini o panda, e non riesce ancora a comprendere l’importanza di specie che ci paiono irrilevanti.
Il grande uso di antibiotici, per esempio, sta modificando le popolazioni batteriche marine. Magari portando all’estinzione (per speciazione) di specie che, oggi, fanno funzionare gli ambienti in un modo che permette anche la nostra sopravvivenza. Se queste si estinguono e sono sostituite da altre, come possiamo esser certi che i nuovi arrivati faranno funzionare l’ambiente in un modo compatibile con la nostra esistenza? I batteri sono più importanti delle balene, per il funzionamento degli ecosistemi. Ma non è un concetto facile da far digerire! Salviamo i batteri! sarebbe uno slogan di scarsissimo successo.
Estinzioni in Mediterraneo
L’anno scorso ho fatto un’indagine per le Nazioni Unite sullo stato della biodiversità in Mediterraneo. Ho elaborato un questionario che è stato mandato a ricercatori di tutti i paesi che costeggiano il bacino, dal Marocco alla Spagna. Tra le tante domande c’era anche quella riguardante le specie estinte. Quali sono le specie che si sono estinte nelle acque del suo paese negli ultimi cento anni? Le risposte sono state le solite: la foca monaca. Che, comunque, continua ad essere presente in Marocco, in Turchia, in Grecia. È una specie minacciata, non è estinta.
Avrete sentito dire che, oggi, il pianeta sta andando incontro a un’estinzione di massa più terribile di quella che ha portato alla scomparsa dei dinosauri, no? Bene, ma se chiedete una lista delle specie che si sono estinte, questa è limitata a pochissimi casi, e spesso si tratta di specie con areale ristretto e rappresentate da pochi individui. Specie che, magari, si sarebbero comunque estinte. Insomma, non c’è niente di strano se muoiono i centenari! Questi catastrofismi spesso possono essere controproducenti, proprio perchè, magari, non sono supportabili da dati concreti. È stato stimato che sul pianeta vivano tra due e dieci milioni di specie. Quanto è lunga la lista di quelle estinte in tempi recenti?
Val la pena di ricordare una cosa. Trent’anni fa il comandante Cousteau fece una terribile previsione: in vent’anni il Mediterraneo sarà morto. Nel frattempo è morto lui e il Mediterraneo è ancora vivo e vegeto. Il risultato è che l’opinione pubblica ora è meno sensibile a questi catastrofismi. Gridare al lupo quando il lupo non c’è fa diventare inefficace l’avvertimento quando il lupo arriva davvero.
Specie e habitat
Tutto bene, allora? No, mi spiace. Non possiamo star tranquilli. Il problema più grosso non è l’estinzione delle specie ma, piuttosto, la scomparsa o la riduzione degli habitat, cioè delle porzioni di ambiente con caratteristiche simili che ospitano un determinato gruppo di specie, o comunità. Ogni specie è legata a una certa tipologia di habitat, e ogni habitat ospita un determinato gruppo di specie. La biodiversità, di cui si parla tanto, può essere rappresentata dalle specie ma, anche, dagli habitat. Bene, se andiamo a guardare gli habitat ci accorgiamo che l’ambiente, sia a terra sia in mare, si sta sempre più banalizzando e che certi tipi di habitat stanno diventando sempre più rari, con il fenomeno della frammentazione degli habitat. Non mi risulta che sia mai stata registrata l’estinzione di un habitat, ma è molto comune la regressione di particolari tipologie di habitat. In mare mi viene in mente la prateria di Posidonia. Se è difficile quantificare e qualificare l’estinzione delle specie, è facile invece verificare la regressione degli habitat. Se un habitat scompare, o regredisce, diminuiscono le possibilità di sopravvivenza per le specie che lo abitano. E quindi, a lungo termine, si innescano processi di estinzione. Magari non li vediamo, perchè il processo è lento, però possiamo star certi che, se un habitat non c’è più, anche le specie che lo abitano scompaiono.
La direttiva habitat
L’Unione Europea lo ha capito e ha lanciato la direttiva Habitat. È in questo modo, con questo strumento, che si difendono le specie. Difendendo gli habitat. Per sfortuna la direttiva ha valenza quasi esclusivamente terrestre. Gli habitat terrestri meritevoli di protezione sono quasi duecento, mentre quelli marini sono meno di dieci. Il mare è stato dimenticato. Ma si sta lavorando per sanare questa lacuna. Il problema, adesso, è far capire all’opinione pubblica che non bisogna «fissarsi» sull’animaletto carino ma che è importante proteggere gli habitat, anche se il coinvolgimento emotivo magari è minore.
I datteri di mare
In Puglia, e in molti altri posti del Mediterraneo, la gente è ghiotta di datteri di mare. I datteri scavano buchi nella roccia e, per prenderli, bisogna distruggere le rocce. Facendo questo si distrugge un habitat (quello dei fondali rocciosi superficiali) ricchissimo di biodiversità. Il legislatore lo ha capito e ha vietato la pesca del dattero di mare. Ma per l’opinione pubblica è ancora «strano» che ci sia un divieto del genere. I datteri corrono il rischio di estinguersi? Chiedono. E se la risposta è no, la domanda seguente è: e allora perchè non li posso mangiare? Se la risposta è che per prenderli si distrugge l’habitat delle rocce sommerse superficiali, l’interlocutore assume un’espressione sorpresa. E allora? Ma come! Muoiono alghe, spugne, briozoi, molluschi, anellidi, cnidari, crostacei. Alghe? Cnidari? E allora? Non son mica balene, no? Che facciamo ora, salviamo le alghe?
Sensibilizzare l’opinione pubblica su questi problemi non è facilissimo. Anche perchè, nella divulgazione naturalistica, la natura non è ambiente, la natura è qualche specie «carina». Il resto è solo uno sfondo. E non è facile spiegare che se voglio salvare le balene devo salvare gli eufausiacei di cui si nutrono. E per salvare gli eufausiacei devo fare un sacco di cose che, magari, apparentemente con le balene non c’entrano niente.
La nostra estinzione
Le grandi civiltà del passato si sono estinte. Come mai? Guerre, epidemie, catastrofi. Sono molte le cause. Ma spesso, probabilmente, le grandi civiltà sono state esse stesse la causa della propria estinzione. Il loro successo nel colonizzare l’ambiente, nel piegare la natura ai loro bisogni, ha segato il ramo su cui stavano sedute. L’uomo si costruisce un habitat fasullo, che non ha le caratteristiche naturali che permettono l’esistenza dell’uomo stesso. Distrugge tutto, ha qualche vantaggio a breve termine e, a lungo termine, provoca la catastrofe. In passato la possibilità di distruggere tutto era limitata dalla bassa tecnologia. Oggi, con l’alta tecnologia, la nostra possibilità di distruggere è altissima e, come ho detto, abbiamo colonizzato tutto il pianeta. Non abbiamo altri posti dove andare. La globalizzazione è proprio questo. Abbiamo usato tutto il globo e non ci sono più posti dove scappare, per scampare al disastro locale. Ancora lo facciamo. Magari abbandoniamo le nostre città inquinate per fare le vacanze in posti ancora «poco sviluppati». Ma chi abita quei posti «poco sviluppati» vuole vivere come noi, e non gli importa se questo comporta la distruzione degli habitat. D’altronde noi come possiamo chiedere agli altri di non svilupparsi se continuiamo a vivere come viviamo? È normale che anche gli altri vogliano vivere come noi, no?
In passato, le catastrofi erano limitate dalla limitata capacità di dispersione della nostra specie. Oggi no. Stiamo preparando la catastrofe globale.
La vita è in pericolo?
Tranquilli, non ci son problemi per la vita sul pianeta. Ha superato cose ben più gravi di Homo sapiens. D’altronde pensateci un po’, ci sono tante specie che vorremmo far estinguere e non riusciamo. Topi, scarafaggi, mosche, zanzare, batteri e virus patogeni. I veleni che usiamo contro di loro si stanno rivelando letali per noi, mentre loro evolvono resistenze. Non riusciremo a rovinare tutto. Certo, il mondo non sarà come è ora, o come era qualche centinaio di anni fa. Ma che importa? La vita ha attraversato catastrofi globali, supererà anche la nostra, quella causata da noi.
La specie in pericolo, se non lo avete ancora capito, è la nostra. Il nostro grande successo è la premessa per il nostro insuccesso. Siamo troppo bravi, troppo efficienti, troppo avanzati. Troppo persino per noi.
Non so che consigliare, alla nostra stupida specie. Non me la sento di predicare il ritorno allo stato brado, di abbandonare la tecnologia. Mi sentirei un fanatico e poi, a dir la verità, me la sto godendo tantissimo. Forse ci vorrebbe un po’ di buon senso. Una cultura diversa.
La biofilia
Tutti i giovani esemplari della nostra specie hanno la biofilia. No, non è una malattia, è una innata propensione ad amare i viventi. Tutti i bimbi sono attirati dagli animali, anche da quelli che gli adulti considerano brutti e cattivi. Poi, con il procedere dell’educazione, la biofilia viene canalizzata verso poche specie (il cagnolino, il gattino) e il resto si perde. La Cultura, soprattutto nel nostro paese, è antropocentrica. La Cultura sono le produzioni culturali di tipo umanistico. La storia naturale è presto abbandonata e viene trattata solo nei programmi televisivi dove però, come ho già argomentato, si parla solo di animali «carini». Se il rispetto della natura non fa parte della cultura, è normale che non ci preoccupiamo del significato delle nostre azioni nei confronti del resto del mondo. Guardate i programmi di istruzione pubblica. Guardate il posto assegnato alle scienze naturali. È semplicemente ridicolo. Il risultato è che non riusciamo a capire quel che stiamo facendo. E uccidiamo scientemente la biofilia attraverso il sistema educativo.
Magari scriveremo poesie e declameremo poemi sui mammuth che non ci sono più, e poi magari ce ne andremo perché qualche batterio non fa più il suo dovere. Ma che importanza può avere un batterio, no?
Per ora stiamo bene, anzi benissimo. Non siamo mai stati così bene. La vita non è mai stata così lunga, almeno per qualche porzione delle popolazioni umane. Non è mai stata così confortevole. Oggi io, semplice cittadino, ho a disposizione servizi e possibilità che non erano accessibili neppure al Re di Francia, quando veniva paragonato al Sole. Poi quel grande Re ha fatto una brutta fine. Spero tanto di sbagliarmi e di avere torto. Anche se so che lo sviluppo, in un mondo finito, non può essere infinito. E mi spaventa chi si spaventa se le curve non crescono sempre. La crescita continua non è di questo mondo. Più si cresce, più bisognerà decrescere. La storia della vita ce lo insegna. Ce lo insegnano i dinosauri. Ma ognuno deve fare la propria esperienza.
Ferdinando Boero, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche e Ambientali, Università di Lecce