Un animale unico al mondo, che oggi vanta sempre più titoli e ragioni per essere chiamato non solo Camoscio d’Abruzzo, ma con migliore «spirito del tempo» Camoscio appenninico? L’importante ruolo del Gruppo camoscio Italia
L’importante ruolo del Gruppo camoscio Italia
Il Camoscio che ancor oggi vive nell’Appennino, con poco più di un migliaio di esemplari discendenti dal piccolo nucleo miracolosamente salvato, al principio del secolo scorso, dal Parco Nazionale d’Abruzzo, è il diretto discendente di quei Camosci che, durante i periodi glaciali, penetrarono molto a Sud nella penisola italiana ma poi, a seguito dei profondi mutamenti climatici, finirono col soccombere, salvo in poche zone privilegiate, dove trovarono asilo. Qui sopravvissero grazie a particolari adattamenti, subendo quindi una progressiva differenziazione dal ceppo originario.
Sulla posizione sistematica di questo animale si sono susseguite opinioni diverse: fino a qualche tempo fa, molti lo consideravano una semplice sottospecie del comune e ben noto Camoscio europeo (Rupicapra rupicapra). Ricerche più avanzate, peraltro, hanno poi indotto a ritenerlo, piuttosto, una sottospecie direttamente collegata al lontano Camoscio dei Pirenei (Rupicapra pyrenaica). Non mancano tuttavia studiosi che ne sostengono, con argomenti più che consistenti, la separazione a livello di buona specie autonoma (Rupicapra ornata), date le innegabili diversità morfologiche e genetiche, il lungo isolamento riproduttivo e le differenze etologiche marcate. Questo dibattito ha tuttavia generato notevole confusione anche a livello culturale, divulgativo e soprattutto normativo, a svantaggio della visibilità e della stessa tutela dell’importante Ungulato. Su un fatto comunque sembrano tutti concordi, che si tratti del più bel Camoscio del mondo: e chi lo abbia osservato almeno una volta nel suo splendido abito invernale non può che essere consenziente.
Fino al secolo scorso questo magnifico animale abitava anche le aspre balze e gli estesi pianori del Massiccio del Gran Sasso, ove l’ultimo superstite venne stoltamente abbattuto verso la fine dell’Ottocento. Ma tra la fine del 1912 e l’inizio del 1913 nelle stesse montagne della Camosciara, estremo inaccessibile rifugio, non ne restavano in vita che poche decine di esemplari. Anche questi certamente votati a completa distruzione, se non vi fosse stata istituita, con uno speciale Decreto Reale del 9 gennaio 1913, quella che può considerarsi di fatto la prima Riserva Naturale italiana. Circa un decennio circa più tardi, il 9 settembre 1922, veniva inaugurato per iniziativa privata il Parco Nazionale d’Abruzzo, che qualche mese dopo avrebbe finalmente ottenuto l’auspicato riconoscimento dello Stato italiano.
Un fatto confortante generalmente constatato è, comunque, il progressivo accrescimento della popolazione abruzzese. La sua ottima salute, la vitalità degli individui e l’eccellente tasso di riproduzione annualmente riscontrato consentirebbero in futuro un incremento ancor più sostenuto. Qualcuno ha ritenuto che ad una rapida espansione ostino ancor oggi non solo una penetrazione umana troppo invadente e indiscreta, ma anche la presenza di animali predatori più che cospicua: oltre a Lupo e Lince, probabilmente vanno considerati Martora, Volpe, Gatto selvatico ed Aquila reale, talvolta capaci di insidiare i piccoli. E d’altro canto, non può escludersi che lo stesso Orso marsicano esplichi un’azione limitante soprattutto indiretta, mantenendo i branchi di Camosci in stato di frequente agitazione e costringendoli a rifugiarsi spesso nelle zone più impervie.
Se queste supposizioni fossero esatte, il successo dei ripopolamenti di Cervo e Capriolo, che hanno riportato nelle foreste del Parco d’Abruzzo, e dell’Appennino in genere, forme di vita ingiustamente soppresse in passato, non potrà alla lunga che giovare all’incremento dello stesso Camoscio, in quanto saranno il metodo più efficace per «scaricare» altrove la tensione dei numerosi predatori. E ciò varrà ancora una volta a confermare l’insostituibile valore dell’equilibrio biologico e naturale, quale garanzia di conservazione di ogni specie vivente nell’armonioso insieme delle comunità vegetali ed animali, troppo spesso arbitrariamente alterate dall’uomo.
Ma, accanto a questo, occorrerà controllare e disciplinare sempre meglio la visita al Parco, perché l’ammirazione per i Camosci non si trasformi in un’invasione magari pacifica, ma chiassosa e disordinata, dannosa alla loro salute per il disturbo arrecato alla riproduzione e all’allevamento della prole nei mesi invernali, e al pascolo nelle praterie d’altitudine durante la buona stagione.
Per l’avvenire della specie, dunque, la più valida soluzione è stata senz’altro quella d’aver creato nuovi nuclei di Camoscio d’Abruzzo non solo sui monti Marsicano e Greco, ma anche sui Massicci del Gran Sasso e della Maiella. Un’idea al principio avversata da molti, ostacolata da ambienti politici, venatori e persino accademici, ma poi tenacemente realizzata con successo superiore alle aspettative. E da sviluppare ulteriormente in futuro anche nelle altre zone dell’Appennino capaci di offrire adeguata ospitalità al «popolo delle rocce»: dai Monti Sibillini, attraverso i Massicci del Velino-Sirente e dei Simbruini-Ernici, fino al Matese, assicurando così uno splendido futuro a questa creatura innocente, che appena un secolo fa si trovava assai prossima al baratro della totale estinzione.
Un animale unico al mondo, che oggi vanta sempre più titoli e ragioni per essere chiamato non solo Camoscio d’Abruzzo, ma con migliore «spirito del tempo» Camoscio appenninico.