Delle quattro specie dei avvoltoi che un tempo la fauna italica poteva vantare (Gipeto o Avvoltoio degli agnelli, Avvoltoio monaco, Capovaccaio e Grifone) ben poco sopravvive ormai nel nostro Paese, anche se ora si sta tentando, lentamente, un faticoso ritorno
Spettacolo affascinante, un tempo abbastanza frequente ma oggi sempre più raro, il volo dei grandi uccelli rapaci, un tempo interpretato come segno del cielo rivelatore di destini futuri, può suscitare ancor oggi forti emozioni e certamente attestare, meglio di qualsiasi «certificazione» artificiale, il valore di un ambiente non contraffatto, e della vera natura capace di riprodurre indefinitamente se stessa. E tra tutti i grandi volatori dominano, accanto alle fiere aquile, i pacifici avvoltoi dall’apertura alare che può raggiungere 3 metri, capaci di librarsi per ore alla ricerca di cibo, scrutando ogni movimento sul terreno sottostante, con la pazienza e l’attenzione di chi sa che non deve compiere errori, né può farsi sfuggire il prossimo pasto, presupposto basilare per nutrire la prole e conservare quindi la propria specie.
Delle quattro specie dei avvoltoi, molto diversi tra loro, che un tempo la fauna italica poteva vantare (Gipeto o Avvoltoio degli agnelli, Avvoltoio monaco, Capovaccaio e Grifone) ben poco sopravvive ormai nel nostro Paese, anche se qualcosa sta ora lentamente tentando un faticoso ritorno. Ma l’avvoltoio più conosciuto e diffuso resta certamente il Grifone, una volta comune in Sardegna, presente in Sicilia e in alcune zone del Mezzogiorno, dovunque dominassero estesi pascoli e mandrie o greggi di bestiame al pascolo.
Oggi si stima non se ne contino più d’un centinaio di individui, e a causare la loro progressiva rarefazione è stato soprattutto il progressivo declino delle attività di allevamento e pastorizia tradizionale: cui si sono sommati, sarà bene ricordarlo, le più nefaste attività umane, dal vile bracconaggio all’incosciente dispersione di micidiali veleni. Eppure la vita del tranquillo grifone costituisce, di per sé, un vero miracolo della natura e un complemento prezioso dell’ecosistema, perché svolge l’essenziale ruolo di consumatore dei residui organici, come animali domestici o selvatici morti accidentalmente: rappresentando quindi, senza nulla chiedere in cambio, il raccoglitore di rifiuti per eccellenza.
Ogni mattina, al sorgere del sole, le correnti calde ascensionali invitano i grifoni a librarsi alti nel cielo per la quotidiana esplorazione, «galleggiando» poi nell’aria come aquiloni, ma tenendosi a debita distanza uno dall’altro. In questo modo esplorano un territorio aperto vastissimo, e qualcuno di loro finirà prima o poi con lo scoprire l’agognato cibo. Sarà una pecora o una mucca, e talvolta un cervo o un muflone, morti accidentalmente o vittime di qualche predatore: a segnalarlo, tra rocce e pascoli, molto spesso provvederanno le volpi già sul posto, o i voli eccitati di corvi, cornacchie e gazze, che non possono sfuggire al volatile dall’acuta vista.
Allora il Grifone incomincia a scendere lentamente verso il suo obiettivo, in cerchi concentrici, fino a che non tocca il suolo e inizia il suo pasto. Ma la sua manovra non può certo essere sfuggita ai colleghi, che incominciano a calare uno dopo l’altro per partecipare al banchetto. L’attività di gruppo ha funzionato in modo splendido, perché pur librandosi a quote considerevoli, i Grifoni non si erano mai perduti di vista, un po’ come avveniva un tempo, assai prima dell’avvento del telegrafo e del telefono anche portatile: tra torri di avvistamento con segnali convenzionali, tra nuraghi con specchi riflettenti o da alti tavolati presidiati dai pellerossa con fumate intermittenti… Per la verità, in origine la presenza di più specie di avvoltoi garantiva anche una equa divisione di compiti e di provviste: anzitutto l’Avvoltoio Monaco dal becco più forte che squarciava la preda, poi il Grifone che vi infilava il lungo collo per estrarne le viscere, infine il Gipeto che spaccando le ossa ne divorava il midollo. Senza contare il piccolo, ma leggero e mobile Capovaccaio, che assisteva da qualche punto di osservazione elevato alla nascita dei vitellini, per poi accorrere a mangiarne la placenta.
In Italia il grifone è stato oggetto di molti tentativi di reintroduzione, spesso accurati e consistenti, non di rado sfortunatamente falliti: e così decine di questi straordinari volatili hanno dovuto in questi ultimi anni miseramente soccombere, in Calabria come in Abruzzo, vittime soprattutto di veleni incoscientemente dispersi da contadini e pastori, allo scopo di abbattere volpi e lupi. D’altro canto, senza progetti di più ampio respiro, anche i nuovi grifoni in futuro liberati sembrano «condannati» ad essere per sempre nutriti soltanto artificialmente…
Le cause di tali fallimenti sono molteplici, ma su tutte prevalgono almeno due ragioni evidenti. Anzitutto, ogni operazione di ripopolamento non costituisce un fatto meramente biologico, da affidare esclusivamente a specialisti settoriali: richiede visioni interdisciplinari, capaci di coinvolgere attivamente ciascuno, dai giovani del posto ai visitatori, dagli operatori tecnici alla gente che vive a contatto con la natura.
Inoltre, non va dimenticato che a poco vale ogni nobile intento di riportare il grifone là dove viveva e potrebbe ancora volare, se non si sono anche risolti i problemi del randagismo canino, dell’uso indiscriminato di veleni e della convivenza tra pastori e lupi.
Basterebbe un po’ di memoria storica per ricordare che, appena mezzo secolo fa, l’ultima colonia di Grifoni siciliani fu distrutta, sui Monti Nebrodi, da un solerte veterinario. Il quale aveva cosparso la zona di bocconi avvelenati per «sterminare le terribili volpi»: che morirono a decine, causando la morte dei poveri e innocenti avvoltoi. Ora le volpi sono ovviamente ritornate, ma gli uccelloni da Alcara li Fusi, ben noti a tutti come «vuturuna», sono ormai totalmente eliminati. Solo il successo di nuovi ripopolamenti, speriamo condotti in modo sempre più competente e illuminato, potrà garantire il futuro del grande volatile nel Mezzogiorno d’Italia.