Picchio nero

2195
Tempo di lettura: 5 minuti

I Picchi sono legati in special modo alle foreste primeve, ed è stato proprio lo sfruttamento inesorabile e dilagante delle antiche selve vergini e inviolate, che ancora occupavano rilevanti estensioni del nostro Mezzogiorno al principio del secolo scorso, a portarlo quasi sulla soglia dell’estinzione

Tra le diverse specie di Picchi che si possono ancora incontrare nelle foreste appenniniche, il maestoso Picchio nero (Dryocopus martius) è certamente il rappresentante più prezioso e interessante, confinato nelle valli montane remote e indisturbate delle parti meno note e frequentate del Mezzogiorno. Un uccello ormai quasi leggendario, che offre una delle più valide testimonianze della fauna forestale di climi freddi che ormai, a seguito della dilagante espansione delle attività umane, è quasi ovunque scomparsa nelle grandi penisole mediterranee. Un divoratore instancabile di insetti rodilegno e tambureggiatore insistente di tronchi deperienti, fortunatamente sopravvissuto non solo nelle Alpi, ma anche in pochi recessi dell’Italia centromeridionale, tra cui spiccano le montagne del Cilento e soprattutto quelle della Calabria e della Basilicata: dalla Sila al Pollino.
Grande più o meno come una Cornacchia, quest’uccello elegante e slanciato discese lungo tutta la penisola italica durante le epoche glaciali, ma rimase poi confinato in zone ristrette, costrettovi dal mutamento del clima prima, e poi dai grandi disboscamenti.
Tutti i Picchi sono infatti legati in special modo alle foreste primeve, ed è stato proprio lo sfruttamento inesorabile e dilagante delle antiche selve vergini e inviolate, che ancora occupavano rilevanti estensioni del nostro Mezzogiorno al principio del secolo scorso, a portarlo quasi sulla soglia dell’estinzione. Perché fu proprio in quel periodo che, con l’avvento di nuovi bisogni e per effetto dell’impiego di mezzi più devastanti, si verificò un cambiamento drastico e quasi irreversibile delle situazioni ambientali, che determinò la scomparsa, o almeno la notevole riduzione, delle componenti più significative della originaria Biodiversità.

Non sarà difficile comprenderne le ragioni, né risulterà superfluo ricordarle anche a quanti ne fossero già a conoscenza. Infatti questi uccelli tanto simpatici, quanto utili, vivono là dove esistono ancora alberi particolarmente vetusti e colossali, nelle cui cavità nidificano, e dalla cui scorza semidisseccata e disfatta estraggono ogni genere d’insetti e d’altri animaletti per nutrire se stessi e la propria prole. Si tratta inoltre di volatili piuttosto sedentari, per cui una volta estirpati da un loro rifugio, un eventuale reinsediamento sarebbe tutt’altro che semplice e immediato. Ma proprio per questo, e per il ruolo essenziale che giocano nell’equilibrio della natura, risultano ancor più importanti e meritevoli di attenta protezione: senza contare che ascoltarli e ammirarli in libertà nei boschi costituisce senza dubbio uno spettacolo unico e straordinario.

Dove vive

Il Picchio nero abita di preferenza le tranquille foreste secolari di faggio, o le selve di grandi conifere montane, e talvolta frequenta anche i boschi misti. Mentre nelle Alpi il suo incontro non può dirsi proprio eccezionale, nell’Appennino costituisce un fatto di rilievo per la sua rarità ed elusività, ed anche per l’accantonamento in zone di rifugio particolarmente selvagge e solitarie del nostro Mezzogiorno. Il mio incontro con quest’uccello ha una storia che risale a circa mezzo secolo fa, quando soltanto menzionarlo, nel Mezzogiorno d’Italia, poteva sembrare la rievocazione d’un mito.
Certo, si sapeva bene che nel dopoguerra alcuni avvistamenti erano stati effettuati in Sila, e che di lì l’ornitologo Giuseppe Moltoni, direttore del museo di storia naturale di Milano, ne aveva riportati alcuni esemplari abbattuti a fucilate (oggi ci si scandalizzerebbe di questi sistemi, ma non vi è dubbio che in quei tempi si trattava del metodo più pratico e sicuro impiegato dai cacciatori-naturalisti in rapida esplorazione).
Allora quasi nessuno conosceva il Pollino, e ancor meno facile era che qualcuno accettasse di credere che il Picchio nero vivesse anche laggiù: così, quando nel 1972 mi trovai a percorrere ancora una volta quelle montagne, per tentare di redigerne la prima analisi faunistica, riuscii a rompere la cortina del silenzio, convincendo un albergatore a farmi fotografare le spoglie di uno di questi uccelli regolarmente impallinato. Era finalmente la prova incontestabile, ma ne seguirono poi molte altre di qualità senza dubbio migliore. Come quando, con un gruppetto di amici appassionati e selezionati, esplorai in lungo e in largo i Monti di Orsomarso (denominazione da me stesso proposta per quella straordinaria propaggine del Pollino verso la Catena Costiera) riuscendo a vedere e udire il Picchio nero più volte. In volo battuto, con frequenti planate, sulla volta della faggeta calabra al crepuscolo, o in volo nervoso per brevi tratti allo scoperto, passando proprio sopra alle nostre teste, in pieno giorno, per raggiungere un piccolo nucleo di faggi fortemente attaccati dai Coleotteri xilofagi.

Un’altra volta in Sila, non lontano da Camigliatello, avevo trovato anche il suo nido, che si parò di fronte a me proprio dove non mi sarei aspettato di trovarlo… Ma l’ultima scoperta inattesa risale a non moltissimi anni fa, quando risalendo all’alba da Bagnara verso i Piani d’Aspromonte mi fermai a riposare, puntando il binocolo verso un lontano gruppo di bianchi e longilinei pioppi tremoli: e lo vidi indaffarato ad esplorare quei tronchi, come a volermi confermare la sua presenza anche nella punta estrema della Calabria, giardino verde d’Europa.

La «sorpresa» della ricomparsa

Sembrava invece definitivamente scomparso, fino a una trentina d’anni fa, dalle altre regioni in cui pure era stato riscontrato presente in passato: come Lazio, Abruzzo, Molise e Sicilia… Né vi sarebbe stato da stupirsene troppo, pensando ad esempio che nel Lazio viveva soprattutto nelle selve delle Paludi Pontine, ormai in grandissima parte cancellate a seguito delle bonifiche; e nelle macchie di Cisterna, dove quasi un secolo fa erano stati catturati due Picchi neri, ma delle quali non resta ormai che un vago ricordo. Già nel lontano 1909, infatti, il Lepri aveva sconsolatamente affermato: «Credo che questa bella specie non viva più nella nostra provincia (Roma) in seguito al disastroso disboscamento dei monti, soprattutto nella parte meridionale».
Eppure anche nell’Appennino Centrale non sarebbero mancate sorprese e novità. La più interessante si verificò proprio al Parco Nazionale d’Abruzzo, dove fin dall’inizio del periodo, che gli storici hanno denominato della sua «redenzione» (1969-2001), era stato condotto uno studio, pubblicato nel 1978, sulla eventuale possibilità di reintroduzione del Picchio nero. Nel caso del Parco, però, come spesso accade la teoria venne presto superata dai fatti: perché appena una ventina d’anni dopo, nel 1998, potei finalmente confermare la sicura presenza di questo vero «signore della selva primeva» nel versante meridionale del Parco. Un «ritorno» forse sognato da qualcuno, ma da molti creduto impossibile. Avvenuto davvero, invece, grazie alla forza viva e spontanea della natura: perché il Picchio nero sa ben individuare e abitare quei boschi maturi e stramaturi, dove da decenni la conservazione più avveduta non fa echeggiare il rumore della scure e della motosega.

Ecco dunque un altro animale che potrebbe aggiungersi in futuro alla triste lista degli uccelli scomparsi dal nostro Paese, se non verrà adeguatamente assicurata la sua protezione, insieme alla conservazione dell’habitat cui esso risulta indissolubilmente legato: che è quello dell’autentica foresta selvaggia, non alterata artificialmente dall’uomo. Ma il Picchio nero potrà anche rappresentare il più autentico marchio di qualità per montagne, valli e foreste, dove il rispetto per la natura vera ha indotto gli uomini, almeno per una volta, ad abbandonare frenesie di tagli, trasformazioni e guadagni, per restituire al Mezzogiorno una parte del suo volto più genuino.