Il commercio del clima

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Intravvedo la nascita di una nuova disciplina, quella del commercio dei mezzi per evitare i cambiamenti climatici; la nuova disciplina dovrà occuparsi di come compensare coloro che ci permetteranno di evitare, in futuro, alluvioni o avanzata dei deserti o siccità e i relativi costi monetari e umani

Come è noto, i mutamenti climatici dipendono da un lento continuo aumento della temperatura «media» della Terra (per ora probabilmente un grado in un paio di decenni); di certo stiamo assistendo ad un comportamento del clima anomalo rispetto al passato; in certe zone e in alcuni anni fa più caldo o più freddo o piove di più in maniera improvvisa, stanno fondendo i ghiacciai e sta aumentando il livello dei mari; in altre zone ancora aumenta la superficie dei deserti. Tali anomalie climatiche sono provocate dall’immissione nell’atmosfera di crescenti quantità di gas provenienti dalle attività umane «economiche» dell’industria, dell’agricoltura e zootecnia, dei trasporti, della vita urbana.

L’aumento della concentrazione nell’atmosfera di alcuni gas, come l’anidride carbonica, il metano, l’ossido di azoto, gli idrocarburi clorurati, eccetera, immessi nell’atmosfera in seguito alla combustione di petrolio, carbone, gas naturale e derivati, alla scomposizione dei calcari nella fabbricazione del cemento, alla produzione di metalli, materie plastiche, concimi, eccetera, alle stesse attività agricole e zootecniche, insomma in seguito alla crescita merceologica ed economica, provoca un riscaldamento lento, ma irreversibile e continuo dell’atmosfera stessa e della superficie degli oceani, dei continenti e dei ghiacciai.

La massa dei gas serra, soprattutto dell’anidride carbonica, trattenuti nell’atmosfera aumenta con l’aumentare del numero di abitanti della Terra (3.000 milioni nel 1960, 7.000 milioni oggi nel 2012), dei consumi di carbone, petrolio e gas naturale (4 miliardi di tonnellate nel 1960, dodici miliardi di tonnellate oggi nel 2012) e della massa di merci prodotte, ed è passata da circa 10 miliardi di tonnellate all’anno nel 1960 a circa 35 miliardi di tonnellate all’anno oggi nel 2012.

Una parte, più o meno la metà, di questi gas viene portata via dall’atmosfera dalle piogge, dal contatto fra l’aria e gli oceani, dalla vegetazione. L’atmosfera contiene circa 5 milioni di miliardi di tonnellate di gas; il contenuto di anidride carbonica dell’atmosfera è cresciuto, sempre in circa mezzo secolo, da 2.400 all’attuale valore di 3.000 miliardi di tonnellate; tenendo conto della differenza di peso specifico fra i vari gas dell’atmosfera, dal 1960 ad oggi la concentrazione dell’anidride carbonica è cresciuta da 300 a 390 parti in volume per ogni milione di parti in volume dell’atmosfera (ppmv).

Per farla breve, quanto maggiori sono i consumi di combustibili fossili, la quantità delle merci prodotte, insomma quanto maggiore è la «crescita economica», tanto maggiore è «il calore» di origine solare trattenuto nell’atmosfera per l’«effetto serra», tanto maggiore è l’aumento di temperatura dell’atmosfera, dei mari, dei continenti, tanto maggiori e più frequenti sono, e saranno, le anomalie climatiche che si traducono in perdite di raccolti, in ulteriori consumi di energia per il riscaldamento invernale o il raffreddamento estivo, in tempeste tropicali, eccetera, cioè, a farla breve, in costi.

I governi della Terra, finalmente preoccupati, cercano qualche accordo per fermare, o almeno rallentare, l’aumento della concentrazione di «gas serra» nell’atmosfera; il «protocollo di Kyoto» aveva stabilito che la quantità complessiva di gas serra immessi ogni anno nell’atmosfera dai vari paesi avrebbe dovuto essere limitato al valore che aveva nel 1990 o poco meno, ma nessun paese ha mai accettato tale limite perché, dicono, provocherebbe un rallentamento della crescita economica e dei consumi di merci e di energia. Ma anche se si trovasse un accordo internazionale per bloccare almeno al valore attuale le emissioni «annue» di gas serra, o anche se venissero fissate al valore del 1990, la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera continuerebbe a crescere in ragione di circa 2-3 ppm all’anno: a 410 ppm nel 2020, a 430-440 ppm nel 2030, e avanti di questo passo. In mancanza di concrete iniziative politiche ed economiche l’aumento sarebbe ancora maggiore e ancora maggiori e più frequenti sarebbero le alluvioni, la fusione dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari.

I mutamenti climatici costano sotto forma di perdita di raccolti agricoli, di frane e alluvioni, di perdita di attività turistiche, costano sotto forma di tensioni internazionali. Alcuni paesi, quelli industriali come Stati Uniti, Russia e Europa, e quelli in via di rapida industrializzazione come Cina e India, immettono nell’atmosfera le maggiori quantità di «gas serra» e sono maggiormente responsabili dei mutamenti climatici, che però impoveriscono maggiormente i paesi più poveri nei quali avanzano i deserti, manca l’acqua dei fiumi, si inaridiscono i campi, e scoppiano devastanti incendi che, con i loro fumi, contribuiscono anche loro all’effetto serra.

La situazione preoccupa non nel nome della solidarietà o dell’amore per il prossimo, ma perché l’aumento della temperatura terrestre provoca migrazioni di popolazioni affamate dalle terre inaridite verso campi un po’ più fertili o verso i paesi opulenti, con conseguente aumento della violenza e delle guerre, e quindi ancora dei costi che, per i governi e i potenti della Terra, sono l’unica cosa che conta. Per diminuire l’immissione di gas serra nell’atmosfera alcuni, nei paesi ricchi, propongono di seppellire in pozzi profondi l’anidride carbonica che esce dai camini; o di farla arrivare sul fondo degli oceani dove la pressione dell’acqua la terrebbe allo stato liquido; o propongono pannelli solari o motori a vento, sempre comunque con cautela, perché tutto questo costa soldi. Ci sono ormai proposte di tariffe; chi toglie una tonnellata di anidride carbonica dall’atmosfera o chi ne impedisce l’immissione nell’atmosfera, guadagna tanti euro, in qualche caso fino anche a 50 euro.

Qualcuno ha suggerito di frenare l’aumento della concentrazione di «gas serra» incoraggiando, con opportuni compensi economici, l’ampliamento della superficie terrestre coperta da foreste. Qualsiasi vegetale «cresce» portando via (si badi bene, temporaneamente) dall’atmosfera l’anidride carbonica che, reagendo, grazie alla luce del Sole, con l’acqua, si combina in materie solide come amidi, cellulosa, lignine e innumerevoli altri prodotti presenti nella «biomassa» cioè nelle foglie, nel tronco degli alberi, nelle radici.

Un albero non è altro che una «fabbrica» di prodotti naturali contenenti carbonio «tolto» dall’atmosfera; ogni chilo di legno porta via dall’atmosfera un paio di chili di anidride carbonica; un ettaro di bosco assorbe dall’atmosfera ogni anno circa 20 tonnellate di anidride carbonica, proprio quel gas che esce dai tubi di scappamento delle automobili, dai camini delle fabbriche e delle centrali termoelettriche, dalle caldaie domestiche, eccetera. Gli alberi, quindi, depurano l’atmosfera di quei gas che vi vengono immessi dai consumi umani. Salvo restituire tale anidride carbonica all’atmosfera nel processo di decomposizione quando è finito il loro ciclo vegetativo.

Purtroppo nei paesi poveri tropicali gli abitanti tagliano le foreste per aumentare la superficie coltivata a prodotti alimentari e commerciali, oppure per vendere il legno, oppure per estrarre minerali dal sottosuolo delle foreste stesse. Nello stesso tempo, in tali paesi, ci sono grandi estensioni che potrebbero essere «coltivate» piantando alberi; tali terre sono lasciate abbandonate perché le popolazioni locali non hanno nessun interesse economico a coprirle di foreste che non rendono niente. Ecco allora l’idea di incoraggiare gli abitanti di molti paesi poveri a non tagliare le loro foreste, versando un compenso per il mancato reddito, o di pagare un compenso proporzionale alla superficie che vorranno coprire di alberi.

Gli abitanti dei paesi industriali, forti inquinatori e responsabili dell’effetto serra, possono così mettere in pace la propria coscienza e continuare ad inquinare pagando qualche soldo a qualche paese povero che verrebbe così a partecipare al benessere e alla felicità globale. Qualcuno ha giustamente scritto che questa maniera di ragionare è come il commercio delle indulgenze praticato nel Medioevo. Considerazioni etiche a parte, la procedura di pagare per conservare o aumentare la superficie dei boschi che depurano l’atmosfera, questo commercio delle foreste è ormai in moto, con numerose complicazioni tecniche ed economiche.

Il primo problema riguarda il compenso da attribuire per ogni ettaro di terreno salvato dal diboscamento o per ogni nuovo ettaro di bosco piantato e coltivato. Alcuni propongono un compenso di 20 euro (più basso perché va ai poveri) per ogni tonnellata di anidride carbonica «eliminata» ogni anno, il che potrebbe significare che un paese, o un villaggio, o un coltivatore, avrebbe una «rendita» annua che potrebbe arrivare a circa 400 euro per ogni ettaro di bosco nuovo o salvato.

I paesi inquinatori dovrebbero stare bene attenti che i soldi pagati per i boschi che assicurano il «diritto ad inquinare» corrispondano effettivamente alla creazione e alla conservazione dei boschi disinquinanti e che non vengano compiute frodi. Le foreste non sono macchine industriali che pompano via anidride carbonica dall’atmosfera e basta; le foreste sono delicati ecosistemi che sopravvivono, e svolgono la loro funzione disinquinante, e crescono e durano a lungo con un complesso rapporto con altri vegetali e con gli animali e con i microrganismi del terreno. Inoltre il legno che continuamente si forma, a mano a mano che gli alberi crescono, può essere utilizzato e diventare una piccola fonte di ulteriore reddito, per esempio come materiale da costruzione, in alternativa al cemento e al ferro, o come fonte di energia in alternativa al gasolio.

E qui si tratta di riscoprire le conoscenze sull’uso commerciale e merceologico del legno, dimenticate col passare dei decenni, con corsi universitari e strutture informative ed educative, sia nei paesi industrializzati (che si sono dimenticati delle virtù del legno e le riscoprono solo ora per poter continuare a far correre le loro automobili e i condizionatori d’aria e i telefoni cellulari), sia nei paesi poveri che potrebbero diventare una nuova frontiera di ricerca scientifica e di innovazione.

E ci sarà poi da chiedersi se non sia più conveniente spendere soldi per razionalizzare e limitare i consumi dei combustibili fossili, per inquinare di meno nel momento in cui si producono merci e servizi, se non sia il caso di ripensare le definizioni di crescita merceologica e capitalistica e quelle di sviluppo umano, considerando che gli esseri umani stanno giocando una partita fra consumi, inquinamenti e uso delle risorse naturali e che, con tutta la nostra scienza, sappiamo ancora molto poco delle regole di tale gioco planetario.

 

Giorgio Nebbia, Professore emerito di Merceologia, Università di Bari