La sostenibilità nella certezza delle norme e nelle ambiguità dei fatti

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Oggi la sostenibilità la cercano drammaticamente all’Ilva di Taranto e in tutte quelle altre piccole e grandi Ilva del mondo, nelle quali ancora non c’è accordo sul senso e sulla pratica della sostenibilità da realizzare, perché, pur se i principi sono chiari, permane poco rispetto (forse anche strumentale per altri fini) delle regole su dove mettere i paletti che, in presenza di processi deterministici, segnano un preciso confine fisico, razionale, coerente e dovuto per la tutela della sicurezza dentro e fuori le sedi operative degli impianti industriali. Senza la definizione dei confini, entro i quali valutare e provvedere al controllo degli impatti delle varie lavorazioni, non è possibile indirizzare, in modo compiuto, interventi per la gestione corretta dei rischi nei particolari ambienti di lavoro e di vita coinvolti.
Su questa linea di problemi possono, purtroppo, essere scritti i racconti interminabili delle drammatiche conseguenze di presunte sostenibilità che, invece di migliorare le nostre relazioni con la realtà di uno sviluppo produttivo finalizzato al progresso umano, sono diventati motivo di divisione, di provocazioni incrociate, di scontro sociale e di demolizione di quegli equilibri socio-politici che, pur se non risolutivi, hanno strutturato, nel corso dei millenni della nostra storia (e dovrebbero poter continuare a strutturare), equilibri e buone relazioni, pur se faticose, fra modi di pensare e tradizioni di popoli diversi. Tutto uno scenario che sembra intenzionalmente perseguito per ripristinare la legge del più forte, per tornare ad una primordiale lotta per la sopravvivenza, all’oscuramento di quei percorsi di condivisione e di sinergie che permettono di avanzare nei percorsi del progresso umano.
Per non ridurre i fatti e le riflessioni, solo ad una sterile, pur se dovuta, valutazione critica ma astratta sull’indeterminato e sfuggente uso del concetto di sostenibilità (valutazione che senza riscontri di realtà potrebbe finire con l’incentivare infertili scontri verbali fra interessi contrapposti o dannose strumentalizzazioni che non c’è proprio nessuna necessità di promuovere), conviene, qui, cercare di entrare nella concretezza delle realtà vissute dei nostri giorni.
Per avere la misura di quanto sia malleabile il concetto di sostenibilità possiamo continuare a fare ancora riferimento alla vicenda che rischia di mettere in stallo le attività produttive dello stabilimento siderurgico di Taranto. A carico degli impianti e della loro gestione sono state ipotizzate molte accuse: disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico.
Ma la vicenda non è frutto di un cambiamento del processo produttivo che ha portato ad un peggioramento degli impatti di questa attività sul territorio tarantino, anzi fin dai primi momenti della sua realizzazione sono stati apportati continui miglioramenti che hanno diminuito i livelli negativi dei precedenti impatti ambientali. Il fatto è che il progetto è nato in un contesto nel quale si ragionava soprattutto in termini di sviluppo economico e di occupazione. I problemi della gestione elefantiaca dei processi, della gestione della sicurezza e dell’inquinamento erano considerati causa di effetti, pur se non marginali, da affrontare man mano che ne fossero emerse evidenti e allarmanti conseguenze. La crisi della produzione dell’acciaio agli inizi degli anni 90, che ha ridimensionato significativamente i modelli dello sviluppo industriale in Italia, ha offerto, poi, la scusa per ridimensionare anche gli interventi per la mitigazione (fino ad una possibile eliminazione) degli impatti negativi che, già in origine, non garantivano tutele sufficienti per un’accettabile qualità dell’ambiente e della salute.
La successiva privatizzazione del centro siderurgico nel 1995, le regole della competizione globale (in buona parte giocata imponendo peggiori condizioni al mondo del lavoro e ridimensionando, al ribasso, la gravità degli impatti ambientali), la «disponibilità» a chiudere gli occhi da parte di autorità e governi terrorizzati dalle tremende conseguenze di un’eventuale sospensione sine die delle attività produttive, non hanno certamente favorito quell’innovazione che invece ha caratterizzato il profondo ridimensionamento, degli impatti, realizzato in altri centri siderurgici europei (pur se più periferici rispetto ai centri abitati e di dimensioni più ridotte).
Oggi sulla «sostenibilità» di questa attività produttiva (ma è così anche per molte altre attività che continuano a mettere a rischio la qualità dell’ambiente e la salute dei cittadini) sembra sia in atto un braccio di ferro fra posizioni che tendono a tirare dalla parte di singoli, diversi e contrastanti interessi, anche vitali, l’interpretazione del concetto di sostenibilità. I dubbi sui metodi di campionamenti, le contestazioni sui valori misurati degli inquinanti (immessi in aria ambiente o sversati nelle acque o accumulati e lasciati depositare sul suolo), la diversa rilevanza attribuita, attraverso l’elaborazione dei dati, alle correlazioni fra inquinamento e rilevazioni delle patologie connesse e, non ultimo, i diversi orientamenti nelle valutazioni, riguardanti il costo sociale delle decisioni sulla sorte del centro siderurgico, sono tutti elementi che hanno pesato e continuano a pesare, in modo anche imprevedibile, sul senso e la portata delle interpretazioni, che possono essere attribuite al concetto di sostenibilità, e alla sua, forse arbitraria, applicazione. In concreto, sulla sostenibilità c’è da temere che finirà col pesare, più di ogni altro fattore, l’interpretazione decisa dal più forte in campo e non certo la prudente e plausibile interpretazione che, pur nell’approssimazione degli scenari costruiti sui dati, si dispone ad affrontare la soluzione dei problemi riconoscendo la priorità degli impatti sociali rispetto agli interessi verso una sempre più elevata produzione di profitti (provenienti da un risparmio sulla spesa per la sicurezza in fabbrica e la prevenzione dei danni all’ambiente e alla salute umana: vedi la vicenda della Thyssenkrupp). Il ricorso alla sostenibilità diventa, dunque, inaccettabile se c’è la presunzione, da parte di chi la invoca e la strumentalizza, di poter monetizzare e poi svalutare ogni cosa come fosse roba da mercato (la vita dell’uomo e la sua personale visione del mondo, compresi). È questo un concetto di sostenibilità che mostra, con la sua impraticabile condivisione, non solo l’illusione di una sua chiarezza, completezza, correttezza e coerenza, ma anche l’impraticabilità del liberismo (che lo fa proprio), della vantata trasparenza e bontà della competizione e delle virtù fiabesche degli equilibri dei mercati globali.