Comunicare in verità

516
Tempo di lettura: 3 minuti

«Se non si ama la verità, non si è uomini», scriveva, al termine della sua vita, Maritain (1967). Antropologicamente esiste un fortissimo ed imprescindibile legame tra la ricerca-scoperta della verità e la maturità tout court della persona. Il cammino di personalizzazione è un faticoso cammino di verità, dove la fatica consiste nel sentire l’anelito verso la verità, ma, come dice Pascal (1669), nel trovare spesso incertezze, nel sentire l’anelito verso la felicità e nel trovare spesso miseria e morte. La nostra ricerca della verità, infatti, si situa in un quaggiù in cui ogni cosa è in parte vera e in parte falsa, mentre la verità essenziale non è così: è tutta pura è tutta vera. Inoltre la nostra ricerca soffre di mescolanza di verità e falsità che la disonora e la distrugge.

Se ciò è valido per le singole persone, lo è anche per l’intera istituzione: essa ha il dovere di ricercare la verità. Una parte di questo impegno è già presente nel modello di ordine che un’istituzione fa proprio. Ordine e giustizia comportano sempre una domanda sulla verità, da noi espressa con il riferimento alla persona come essere tra un piano conoscibile e uno inconoscibile (la metaxy platonica). Qui vogliamo, invece, riferirci alla prassi di verità presente nelle realtà familiari, lavorative, associative, religiose, burocratiche o politiche. Non basta che le istituzioni abbiano parametri di ordine e giustizia veri in sé e per sé, ma è importante che educhino e comunichino nella verità. Il discorso si sposta, quindi, dal piano ontologico (le istituzioni hanno fondamenti veri) a quello pratico, il ruolo che la verità gioca nella prassi istituzionale.

Partiamo dal dato educativo, seguendo la lezione classica: il fine dell’educazione (paidèia) è quello di formare persone mature, eccellenti nel loro grado di vivere le virtù. Il banco di prova non è il parlare di principi morali, ma la reale capacità di modificare atteggiamenti individuali attraverso le parole e l’esempio. Si tratta, cioè, di un dire e fare la verità. Quando le istituzioni attuano questa duplice capacità riescono a far conformare il comportamento individuale alla matrice istituzionale, diminuendo di fatto l’incertezza, la confusione e il disordine.

Sono inaccettabili, quindi, i percorsi educativi deboli sia dal punto di vista concettuale come anche quelli dal punto di vista pratico. Ed è questa doppia debolezza che inficia molte istituzioni. Facciamo l’esempio della solidarietà. Un giovane adolescente, nei suoi anni di formazione, ha ricevuto dati cognitivi su di essa, in famiglia, a scuola, nelle associazioni, nella comunità di fede religiosa. Tuttavia può succedere che molto difficilmente riesca a dare ragione del principio etico in questione. Ciò significa che i riferimenti teorici sono stati forniti spesso in maniera debole, retorica e vuota; praticamente egli non sa cos’è la solidarietà, se non in termini molto superficiali. Come pure potrà essere capitato che si sia trovato coinvolto in prassi istituzionali che sono la negazione lampante del principio etico; vedi, per esempio, l’individualismo egoista, alcune forme di razzismo o l’esaltazione della classificazione amico-nemico e così via. In termini sintetici, il giovane ha fatto esperienze di falsità sul principio solidarietà, cioè ha avuto a che fare sia con negazioni teoriche sia pratiche di ciò che fonda eticamente un’istituzione.
Il dato educativo è strettamente intrecciato con quello della comunicazione. Sono noti gli aspetti ambigui del comunicare: l’ambiguità non è l’unico possibile vizio del comunicare, ma va considerata anche la manipolazione della verità. Non intendiamo riferirci al deliberato proposito di negare la verità da parte di istituzioni totalmente malate, né alle prassi corrotte e mafiose, quanto alla comunicazione odierna che è spesso segnata dai modelli comunicativi tipici dei media, in particolare della televisione.

I mass media, in quanto strumenti di conoscenza e di crescita, ovviamente sono soggetti a tutti i limiti e i meriti di ogni strumento culturale. Se da una parte, in diversi casi, essi sono fattori di sana crescita personale e istituzionale, in altri contribuiscono, in soggetti già deboli per altre ragioni, al disordine mentale. Lungi da noi il voler affermare che, sia sul piano personale sia sociale e politico, ci sia un rapporto diretto di causa-effetto tra cattivi mezzi di comunicazione e patologie personali e istituzionali. Una tale semplificazione non la permette soprattutto la mole di analisi, ricerche e teorie della psicologia e della sociologia dei media. I media, scrive Sorice (2009), non producono «effetti» deterministicamente intesi; essi però possono contribuire a sviluppare forme di «influenza». Queste forme sono il frutto di processi che, negli studi di comunicazione, vanno sotto il nome di mediatizzazione, la quale interessano un po’ tutte le attività sociali e, quindi, anche la vita istituzionale.
Basandoci sull’analisi di Sorice (2011), gli aspetti più importanti da considerare, a nostro avviso, sono i seguenti: una spettacolarizzazione della vita politica; la prevalenza della componente d’immagine rispetto ai contenuti; lo sviluppo di un immaginario televisivo; l’abbandono di forme ideologiche di comunicazione a favore di forme tipo economico, personale, emozionale; la frammentazione e semplificazione dei contenuti politici al fine di ridurli ai formati e alle narrazioni mediali; la riduzione della complessità politica e istituzionale, con evidente rischio di delegittimazione di esse; la crescita di alcuni gruppi tecnocratici e manageriali; la sovraesposizione mediatica di alcuni attori istituzionali; la professionalizzazione della comunicazione.