L’augurio per la scienza: imparare a parlarne

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Ogni giorno, chi fa ricerca seria, si ritrova a rischio di essere schiacciato fra chi richiede per sé uno status che lo porti ben lontano dalle regole del mondo circostante con la pretesa che la scienza deve essere completamente libera da lacci e lacciuoli e fra chi non si è mai troppo allontanato, culturalmente e metodologicamente, da quell’oscurantismo bigotto e medioevale secondo cui la ricerca deve procedere solo ed esclusivamente in direzione di quello che si vuole e si deve conoscere e nulla più

Nel mare di auguri di tutti i tipi e tutte le fantasie (e mode) ci permettiamo di proporre un auspicio in qualche modo diverso, all’alba del nuovo anno, nella speranza che ciò che faccia bene alla scienza produca vantaggi e benefici a tutti noi. Sembrerebbe infatti che la scienza (intesa nella sua più larga ed ampia espressione) possa non aver bisogno di aiuti o di sostegni caratterizzata com’è da un lento ma inesorabile processo di avvicinamento al cuore delle cose, fra errori, incertezze, piccoli o grandi passi indietro ma sempre con la mente e la volontà a conoscere, migliorarsi e migliorare il mondo di cui (quasi) sempre è figlia.
E invece no, di grandi auguri questa nostra scienza ha bisogno, stretta nella morsa fra chi, a volte ritenendosi depositario di assoluta verità, si guarda troppo poco attorno e vive l’esperienza della ricerca in modo troppo staccato dal comune sentire commettendo l’errore di trasferirsi in un mondo altro ed altero e fra chi, con i dovuti aggiornamenti e le mille modulazioni, continua a guardare alla scienza come una sorta di sottrazione di potestà da parte di alcuni eletti ai danni della maggioranza dei cittadini del mondo. Due sfere opposte, due parti della tenaglia, in mezzo a cui in realtà esiste e resiste la maggior parte dei ricercatori, costretti fra vincoli e scarse risorse a cercare di dare alle cose un senso più chiaro, a spingersi un metro oltre ciò che si sa e che si comprende, a tentare di fornire risposte a domande che qualche volte sembrano mancare di senso o addirittura a proporre domande che a prima vista appaiono di assoluta stranezza.
Ogni giorno, cioè, chi fa ricerca seria si ritrova a rischio di essere schiacciato fra chi richiede per sé uno status che lo porti ben lontano dalle regole (ma anche dal comune sentire) del mondo circostante con la pretesa che la scienza deve essere completamente libera da lacci e lacciuoli perché possa svolgere sino in fondo il proprio compito di perlustrazione esplorativa dell’esistente con le mille possibilità che riconosce a sé stessa e fra chi non si è mai troppo allontanato, culturalmente e metodologicamente, da quell’oscurantismo bigotto e medioevale secondo cui la ricerca deve procedere solo ed esclusivamente in direzione di quello che si vuole e si deve conoscere e nulla più.
La prima strada è quella che porta agli esperimenti senza limiti compiuta in nome della necessità di sapere ad ogni costo, la seconda quella che conduce alla scienza vissuta come teologia, nella quale sappiamo solo ciò che ci è dato sapere, magari con l’intermediazione di un qualcosa che ci è superiore, sia questo qualcosa un potere, una morale (che però non è affatto immutabile nel tempo e come tale rimane più costume che non etica), una cultura.
La scienza, da sempre, ha il compito di scompaginare le carte della visione su cui ci siamo adagiati, rimescolandole in maniera che in un primo momento a volte può parere che si voglia cominciare a giocare un altro gioco proprio ora che si sono imparate le regole del vecchio. In nome di che, si sente dire ed anzi gridare? Perché sfidare le consolidate acquisizioni e correre verso il limite quando, sembrano pensare nemmeno sottovoce molti denigratori della ricerca, «stiamo tanto bene così»?
Il problema è che, raggiunto il limite e spostati i confini un metro più in là (quel famoso metro della ricerca, divenuto chilometro ed anni luce col passare dei millenni), i fruitori e gli utilizzatori (qualche volta compulsivi) sono gli stessi che un attimo (un anno, un secolo) prima guardavano a quello sforzo con l’ostilità che si deve a ciò che non sappiamo e che non conosciamo. E che troppe volte non vogliamo nemmeno conoscere, per pigrizia o per atteggiamento culturale.
Le domande che la scienza si fa sono le domande del mondo, o meglio quelle che il mondo si porrà prima o poi, o ancora che qualche parte del mondo si pone senza che un’altra grande parte se ne interessi. Sono domande che, a noi che non conosciamo bene il percorso che le ha rese possibili, paiono senza senso e senza logica: bizzarrie, stranezze, astrusità o frutti di menti malate e perverse.
Difendiamo la calma piatta della nostra esistenza tranquilla, quando ragioniamo così, riscaldati dalle certezze che ci appaiono esser lì da sempre ma che si sono costruite nei secoli con bizzarrie altrettanto strane ma di cui abbiamo dimenticato o non abbiamo mai conosciuto i percorsi. Riteniamo di esser giunti nel migliore dei mondi possibili e perciò giudichiamo matti coloro che si pongono domande alle quali non siamo preparati e che perciò ci paiono fuori luogo. In realtà il mondo reclama, qualche volta con un soffio di voce, risposte per domande mai poste o sempre negate o troppo scomode per esser poste.
Meglio mangiar carne animale o nutrirsi con carne di laboratorio, sintetizzata senza uccidere esseri viventi? Facile risposta se si è vegetariani e si propone di assumere vegetali. Più complessa se non si è vegetariani o se ci si chiede se per caso anche i vegetali, in quanto viventi, non abbiano diritto alla sacrale difesa della propria esistenza (per non parlar dei pesci che, come d’incanto, perdono lo status di diritto in una logica siffatta). Eppure una carne senza ecocidio viene chiamata bistecca di Frankenstein e guardata con sospetto da coloro che sono pronti a rimpiangere la chianina dal sapore unico o l’involtino come lo faceva la propria nonna. Chi ha ragione? O meglio: siamo capaci di discuterne senza guerre che spostino il conflitto dalla ragione alle legioni?
Meglio continuare a vivere attaccati ad una macchina o meglio scegliere di farla finita se il pensiero è e rimarrà assente, la lucidità mancante, il corpo ridotto a cellule prive di esistenza superiore a quella del semplice biologismo elementare? Sembrerebbe più ovvio disporre e disporsi per la seconda ipotesi (personalmente riteniamo così) ma dietro questo c’è o non c’è il rifiuto di considerare la natura come qualcosa sulla quale poniamo la nostra mano di potere?
Ha senso utilizzare animali (uno, dieci, mille) per cercare una terapia per mille, dieci, un solo paziente al mondo che, affetto da un morbo raro o unico, chiede per sé stesso quelle attenzioni che un mondo troppo attento alla logica dei numeri rivolge solo a quelle patologie, più diffuse, per le quali può esserci un «mercato»?
Le domande senza risposte certe e le risposte a domande mai poste sono mille e mille e bisognerebbe smetterla di usare toni secchi e definitivi quando le si pone, parlando di scienza vera, quella posta al centro della tenaglia, per intenderci. Un po’ di umiltà da parte di tutti sarebbe più opportuna e necessaria. Qualche grammo in meno di integralismo fanatico non guasterebbe, pensiamo noi, visto che è di scienza e non di fede che ci ritroviamo a parlare.
L’auspicio è che quindi di scienza si parli, ma nei modi giusti e con i toni appropriati, lasciando spazio a ragionamenti e non a proclami, privilegiando i fatti e non ipotizzando scenari irrealistici o immaginari. L’augurio è che i secoli successivi all’oscurantismo della mente vengano sostituiti da una capacità di pensiero libero e laico, profondo ed illuminato, senza spade sfoderate in nome della propria presunta superiorità e con la disponibilità ad incontrarsi sul tavolo della ragione. Farebbe bene alla scienza, farebbe bene a noi.