Il virus che ha colpito scienziati e giornalisti

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Un articolo scientifico su tre è stato basato su dati simulati a un PC, una notizia su due è costruita su informazioni di seconda mano. Negli ultimi due decenni, le foreste, le montagne, gli oceani non vedono più l’ombra di uno scienziato pronto a studiarli, così come le piazze, le strade, le guerre non vedono più l’ombra di un giornalista pronto a raccontarle

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C’è un virus che ha infettato due delle più importanti categorie di lavoratori moderni: coloro che studiano il mondo, ovvero gli scienziati, e quelli che ne raccontano la quotidianità, ovvero i giornalisti. È un virus contagioso che si diffonde prevalentemente con lo sviluppo tecnologico. Si alimenta di informazione per generare altra informazione. Ha bisogno di vettori umani, ma se si confronta con la realtà spesso non sopravvive.
È il virus «anti-empiretico», lo si potrebbe definire, che uccide qualunque forma di empirismo e insinua nel corpo di chi lo contrae la sicurezza che tutto ciò che proviene dalla tecnologia è informazione e tutto ciò diventa informazione deve entrare a far parte della tecnologia.
Così, negli ultimi due decenni, le foreste, le montagne, gli oceani non vedono più l’ombra di uno scienziato pronto a studiarli, così come le piazze, le strade, le guerre non vedono più l’ombra di un giornalista pronto a raccontarle.
Entrambi, che siano biologi o pubblicisti, trascorrono oramai le loro giornate lavorative all’interno di uffici, laboratori, redazioni e sale riunioni. Non passano giorni e notti nella natura o sul luogo dell’evento, intenti a osservarli, esplorarli, studiarli, nel tentativo di comprenderli. Aspettano comodamente seduti alle proprie scrivanie che un software, un satellite remoto, un modello matematico, un comunicato stampa, un video su YouTube, una notizia sui social fornisca loro l’informazione necessaria per fare ricerca scientifica o giornalismo.
Così, ci ritroviamo a leggere articoli su riviste accademiche e quotidiani pieni zeppi della stessa assenza di realtà empirica, basati sul principio dell’informazione da remoto.
Il virus «anti-empiretico» ha già creato gravi danni: dai piani di pesca illusoriamente sostenibili (basati, però, su modelli matematici semplicistici), alle fake-news sempre più diffuse dalle accreditate testate giornalistiche; dalle teorie sulla competizione nell’evoluzione (sviluppate più sotto influenze storiche e auspici economici che su evidenze biologiche), alle notizie su pandemie mai verificatesi, poi, nella realtà; etc.
Tutto questo perché, oggigiorno, è diventato molto più facile (e un modus operandi, scandalosamente accettato dalla comunità scientifica e dai lettori) attendere dietro lo schermo di un computer che il dato o la notizia arrivino al ricercatore o al giornalista, che far uscire questi nel mondo reale a verificare ipotesi e fatti.
Un articolo scientifico su tre è stato basato su dati simulati a un PC, una notizia su due è costruita su informazioni di seconda mano. Ricercatori e giornalisti che indagano, quasi mosche bianche, quando lo fanno creano una sorpresa e un polverone di incredulità…
Ricordo qualche anno fa che a un mio ex-collega ecologo, che vedevo ogni giorno intento a smanettare sul suo computer, chiesi su cosa stesse lavorando da mesi. A un modello sullo sviluppo degli alberi di una foresta, mi rispose. Bene, pensai, e lo invitai a visitare una foresta tropicale con me una volta, per raccogliere osservazioni utili. La sua risposta fu perentoria e, all’epoca per me (ma ora ormai ho capito che è la regola e non l’eccezione) sconvolgente: neanche se mi pagano per farlo; figurati, non vado nemmeno nel bosco vicino casa, perché dovrei sudare e rischiare la malaria lì.
Per uno scienziato che cerca di modellizzare le dinamiche di un bosco, non entrare mai in uno vero è paradossale. Un collega giornalista (lo chiamo collega perché ho sempre creduto che fare scienza fosse inutile senza poi divulgarla) mi confermò questa tendenza (si legga, d’ora in avanti, «insana moda»): nelle redazioni, mi rivelò, raccogliamo i comunicati stampa ogni mattina e li trasformiamo in notizie che saranno pubblicate il giorno dopo; i giornalisti ormai sono diventati ingranaggi senz’anima del processo industriale dell’informazione.
Poi col tempo ho compreso che moltissimi studi ecologici vengono condotti a tavolino, senza alcuna raccolta dati in campo, senza alcuna osservazione del reale, e ora penso che, così come i giornalisti, anche i biologi sono diventati ingranaggi senza scienza del processo industriale della pubblicazione a tutti i costi (l’accademia impone che se vuoi fare carriera publish or perish, non importa se quello che pubblichi è scientificamente «vero»).
In un mondo allo sfacelo che, come non mai, avrebbe bisogno della conoscenza della verità da parte degli scienziati e dell’informazione sulla realtà dai giornalisti, per debellare il virus «anti-empiretico» basterebbe che queste figure professionali, oramai indispensabili per l’umanità, rinunciassero, almeno ogni tanto, a un artefatto ufficio, scatola effimera di mondo creato ad hoc, e ricominciassero a trovare le risposte alle domande sulla natura e sull’uomo laddove essi sono sempre esistiti: all’esterno di un personal computer.

 

Roberto Cazzolla Gatti, Biologo ambientale ed evolutivo, Professore associato in ecologia e biodiversità presso la Tomsk State University in Russia