Per amore di mia figlia: lavoro e ambiente

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I ricordi fra intimismo e realtà: «un operaio intervistato tempo fa, incrociato per caso, mi ricorda che c’è una Italia che ha perduto la speranza e una Italia che nonostante le difficoltà e i rischi è andata avanti senza fermarsi troppo all’ascolto delle sirene»

Camminando e passando in rassegna i luoghi frequentati in passato, luoghi fisici (come casa della nonna) e luoghi della passione (come i sogni divenuti realtà e gli altri che hanno assunto l’odore acre della frustrazione), un clacson mi ridesta e di nuovo mi rilancia come una palla ovale appena emersa dalla mischia verso una nuova meta, sconosciuta e potenziale, mai certa.

Eccolo lì un operaio con la sua famiglia che tempo fa mi raccontò la sua vita professionale, curò le mie ansie di giornalista giovane e indipendente affamato di storie e di rivincite: l’ambiente che vinceva sul lavoro, la bellezza sull’inquinamento, la serenità sulle malattie.

Lo sfondo era Taranto, il piano a fuoco era la fabbrica delle cronache e dei processi: l’Ilva.

L’operaio e la sua famiglia, il lavoro garantito e ben pagato, l’assunzione di responsabilità di fronte ai rischi che il suo, come qualsiasi altro lavoro comporta. Eppure all’epoca di quell’intervista (senza nome del protagonista per precauzione) io giornalista impegnato nella lotta eterna della «giusta distanza» faticavo a capire le sue ragioni, non volevo lasciare la base sicura dei miei pregiudizi acquisiti. Non volevo. Mi ci trovavo comodo.

Alla fine della stesura della storia dell’operaio felice, seppur preoccupato come tutti per la sua quanto per la salute dei suoi colleghi (mi raccontò anche un episodio di morte sul lavoro davanti ai suoi occhi), non ero più certo che la mia base fosse la giusta base di visione.

La mia prospettiva, durante la compilazione di un sofferto dossier sulla Taranto dei processi mediatici e della conta dei malati terminali era cambiata, aveva ceduto al coraggio e si era aperta alle ragioni dell’altro. Non ero più così certo che chi fosse strenuamente a difesa dei posti di lavoro avesse torto. Non ero più certo di chi fosse il miope.

Oggi dopo anni passionali sul campo di battaglia della politica ambientale raccontata, mi ritrovo ad accettare un paniere di diritti (del lavoro e ambientali) meno ricco di quello che a suo tempo quell’operaio portava con dignità e orgoglio a casa tutti i giorni.

Io oggi porto solo qualche spicciolo con l’aggravante dell’assenza di garanzie per il futuro mio e di mia figlia.

Oggi quell’operaio incrociato per caso mi ricorda che c’è una Italia che ha perduto la speranza e una Italia che nonostante le difficoltà e i rischi è andata avanti senza fermarsi troppo all’ascolto delle sirene.

A quell’operaio oggi se lo intervistassi di nuovo chiederei una raccomandazione, altro che domande sul dilemma salute o lavoro.