Gioia del Colle e quella sperimentazione infinita che brucia rifiuti

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Nessun dubbio: le sperimentazioni sui rifiuti pericolosi in corso da 20 anni presso l’Ansaldo di Gioia del Colle non hanno motivo d’esistere e vanno fermate. Un po’ di storia. I comportamenti regionali e dell’Arpa. Un’inchiesta lampo

Come un’immortale fenice, che si rigenera dalle sue ceneri («vetrificate», però, specificherebbero da Itea Spa), torna lo spettro su Gioia del Colle delle sperimentazioni sui rifiuti speciali e pericolosi. Ma siamo proprio sicuri che l’incubo torni o c’è sempre stato nell’ultimo ventennio?

Lo scorso 21 gennaio 2021, con un atto che la stessa amministrazione gioiese ha ritenuto «unilaterale», la Città Metropolitana di Bari ha prorogato di due anni le sperimentazioni dell’impianto Isotherm presente nella sede di Ansaldo Caldaie a Gioia del Colle. L’autorizzazione prevede la sperimentazione per un massimo giornaliero di 5 tonnellate su circa 150 tipologie di rifiuti che, sebbene vengano indicati come «non pericolosi» nella determinazione dirigenziale, sono prevalentemente pericolosi, come anche lo stesso elenco in allegato al documento riporta (un’anomalia amministrativa che potrebbe, già di per sé, invalidare l’intera proroga).

Tra le tante tipologie, infatti, su cui Itea potrà continuare, per ben due anni e per ben 5.000 kg al giorno, a sperimentare (un quantitativo che sa poco di sperimentazione e molto di smaltimento) figurano: percolato di discarica contenente sostanze pericolose, catrami acidi, plastiche e gomme, pesticidi, vernici, inchiostri, adesivi e resine contenenti sostanze pericolose, rifiuti solidi prodotti dalle bonifiche dei terreni contenenti sostanze pericolose, solventi, tubi fluorescenti e altri rifiuti contenenti mercurio, fanghi derivanti da acque reflue industriali, rifiuti prodotti dalla purificazione dei carburanti, medicinali citotossici e citostatici, detergenti contenenti sostanze pericolose, batterie e accumulatori, apparecchiature elettriche ed elettroniche contenenti sostanze pericolose, etc.

Ovviamente, da ricercatore e da persona di scienza, riconosco pienamente l’importanza e il diritto alla ricerca che va difeso e garantito. Ritengo che l’impegno nella riduzione dell’impatto ambientale delle attività umane sia una priorità assoluta. Allo stesso tempo, però, credo che non vada confuso l’interesse pubblico nella ricerca e l’affare privato e che vada sempre garantita la massima trasparenza, soprattutto se le ricerche coinvolgono direttamente o indirettamente esseri viventi.

Nonostante mi giunga voce che in questi giorni si stia cavalcando l’onda della notizia per «promozione politica» e ci si chieda, ridicolmente, se quella sperimentata presso l’Ansaldo possa essere una «tecnologia verde strategica per il territorio» (per quale territorio? Per quali cittadini? Per quale verde?), purtroppo, ci sono pochi dubbi riguardo l’assenza di qualunque raziocinio e il rischio a cui il territorio locale e i gioiesi vengono sottoposti, come cavie da laboratorio, da un ventennio.

Proverò brevemente a motivare questa posizione affinché si eviti qualunque strumentalizzazione della vicenda per continuare a confondere l’opinione pubblica e si mettano in atto tutte le azioni necessarie affinché prevalga l’interesse (davvero) pubblico.

La sperimentazione in Emilia Romagna

La tecnologia di combustione senza fiamma non è un’invenzione Itea, né nasce a Gioia del Colle per la prima volta. Numerosi impianti del genere, che prevedono dissociazione molecolare isotermica, sono stati sperimentati nel mondo, a tutt’oggi senza diventare rivoluzioni nella gestione dei rifiuti. L’impianto presente nell’Ansaldo di Gioia è figlio (qualcuno direbbe illegittimo) di un altro Dismo finanziato con un progetto Life dalla Comunità europea tra il 1998 e il 2000 con € 283,542.16 e utilizzato in collaborazione con l’azienda di gestione dei rifiuti pubblica Amia in Emilia Romagna.

La Hera specifica, in un rapporto informativo successivo riguardante l’impianto Dismo, localizzato presso l’inceneritore Frullo di Granarolo (BO), che «la fase sperimentale, seguita all’acquisto della macchina, è stata effettuata in strettissima collaborazione con Itea, da aprile a novembre 2002, evidenziando ampi margini per l’ottimizzazione delle innovative tecnologie utilizzate. L’attività sperimentale ha riguardato varie tipologie di rifiuti fra i quali carboni attivi esauriti e resine a scambio ionico ed insetticidi».

Passano un paio d’anni da quella «ottimizzazione delle innovative tecnologie utilizzate» che, nel 2004, un giudice emiliano mette i sigilli all’impianto e lo sequestra a scopo probatorio dopo aver «accolto la richiesta di un dipendente di Itea, la ditta che lo produce, che si è ammalato di cancro. L’uomo aveva presentato denuncia alla Procura della Repubblica ipotizzando che il suo male sia legato ai fumi inquinanti della macchina che brucia a temperature elevatissime (1600 – 2000 gradi) i residui industriali contaminati da sostanze classificate come pericolose, l’ultimo impianto col quale è stato in contatto nella sua storia lavorativa. E ne aveva chiesto il sequestro. Ottenendo prima il rifiuto del PM Stefano Orsi che coordina l’inchiesta aperta sul caso. E poi il sì del Gip. Ora il grande cilindro, un’installazione delle dimensioni di una locomotiva, collocato sotto una tettoia accanto all’inceneritore, nell’impianto del Frullo di Granarolo gestito da Hera, è bloccato. E resterà fermo finché i periti della Procura non avranno concluso le loro indagini. D’altra parte ha sempre lavorato poco. Anzi, secondo i tecnici di Hera, addirittura poche ore, perché la tecnica è sì considerata eccellente (consiste in un reattore chimico che realizza la completa ossidazione del rifiuto, un processo basato sul «cracking» molecolare in presenza di ossigeno puro ad alte temperature), ma la macchina ha sempre funzionato male.

Ragione per cui, devono aver pensano quelli di Itea, è necessario continuare la sperimentazione dell’impianto da qualche parte sperduta del sud Italia dove i cittadini sono più sornioni, nessuno sa dei problemi in Emilia Romagna e le cose possono proseguire senza intoppi. E così la sede individuata è proprio l’Ansaldo di Gioia del Colle, dove è già in attività un inceneritore del Centro combustione ambiente (Cca) che nessuno sa esattamente cosa e perché bruci. Ma perché sperimentare proprio Gioia del Colle e proprio presso l’Ansaldo, a poche centinaia di metri dal centro urbano? Un indizio lo fornisce la storia dell’eclettico imprenditore emiliano Edoardo Rossetti. Fondatore e azionista al 100% della Rossetti Vernici e Idee Spa, Società leader in Italia nel settore delle vernici decorative dal 1966 al 1998 che vede, probabilmente, nella riduzione dei costi di smaltimento delle vernici e di altri rifiuti pericolosi prodotti durante le fasi di produzione, un buon affare e, nel 1999, acquista la maggioranza del capitale di Itea Spa per industrializzare il progetto Dismo, «tecnologia innovativa nel campo dello smaltimento dei rifiuti pericolosi». Nel frattempo, l’Itea, entra a far parte del Gruppo Sofinter/Ansaldo, leader nella realizzazione di caldaie industriali, impianti per la co-generazione e per lo smaltimento rifiuti e il sig. Rossetti, senza perder tempo, mette il piede in due scarpe e diventa consigliere sia di Itea Spa sia di Sofinter/Ansaldo. Dunque, quando la sperimentazione in Emilia Romagna viene fermata dal giudice e ritenuta inutile perché «la macchina ha sempre funzionato male», viene facile a Itea «parte del Gruppo Sofinter/Ansaldo» individuare in Ansaldo Caldaie/Cca di Gioia del Colle un sito ideale dove continuare gli esperimenti.

Il trasferimento a Gioia del Colle

Dopo qualche anno, però, il malcontento e i dubbi di alcune associazioni e cittadini sulla reale natura dell’impianto iniziano ad emergere, anche in relazione alle notizie che parlano di emissione di diossine rilevate da Arpa (si veda «Il Levante» del 10/12/2007), ma l’azienda si difende dicendo che la sperimentazione non è pericolosa per la salute pubblica e l’ambiente e che l’Arpa è sempre presente per monitorare tutte le fasi sperimentali. Nonostante queste rassicurazioni, dai camini dell’Ansaldo i cittadini continuano a notare fuoruscite di fumi neri e a sentire cattivi odori.

L’Itea, però, continua per anni a rassicurare tutti sostenendo che la sperimentazione Dismo, che ora chiama Isotherm e che, nel tempo, avrebbe persino ottenuto cospicui finanziamenti dalla Regione Puglia e addirittura l’autorizzazione a sperimentare su rifiuti radioattivi (di cui poi si perde qualunque informazione negli ultimi anni), pur utilizzando la stessa canna fumaria, non produce evidenti fumate scure ed è diversa dalle attività che svolge il Cca. Sembra che si voglia lasciare intendere, dunque, che ogni qual volta la popolazione nota emissioni a camino, soprattutto scure e cospicue, si tratti non di attività Dismo/Isotherm, ma di sperimentazioni del Cca. Purtroppo, questa separazione delle responsabilità non tranquillizza la popolazione e non certo rende più salubre l’aria di Gioia. Per l’ambiente e per la salute fa poca differenza se a emettere fumi sia la sperimentazione Cca o quella Itea.

Tanto più che basta visitare il sito internet di Itea dedicato all’Impianto di Gioia del Colle «unità dimostrativa della tecnologia» per notare, a fondo pagina la dicitura «Società del Gruppo Sofinter» e i loghi sia di Cca sia di Itea. Quindi, come in una sorta di scatole cinesi, Sofinter che fa parte di Ansaldo include sia Cca sia Itea che sperimentano entrambe la combustione su varie sostanze pericolose nello stesso sito gioiese e utilizzano la stessa ciminiera rendendo impossibile capire chi stia bruciando in uno specifico momento, grazie a un rimpallo di responsabilità.

D’altronde, resta altrettanto ignoto cosa davvero il Cca bruci, con quali autorizzazioni e con quali finanziamenti, da un ventennio a questa parte. Tra l’altro, cliccando sul link Cca nella sezione delle società del gruppo Sofinter si viene rimandati al sito ufficiale del Centro combustioni ambiente che vanta nei suoi servizi, come referenze, quella della Hitachi che avrebbe effettuato un esperimento di combustione proprio a Gioia del Colle, con tanto di mappa e foto dell’impianto. Quando, su quali sostanze e chi controllava le emissioni e i rischi per la salute pubblica non è dato saperlo.

Proseguendo la visita sul sito Itea, però, è possibile anche trovare il dettaglio sui vari impianti che l’azienda sta collocando nel mondo: al primo posto, appunto, «un impianto dimostrativo a Gioia del Colle (Ba) della capacità di 5 MWt; su questo impianto si verificano e testano le nuove applicazioni industriali, spesso in collaborazione con i Clienti interessati. Il reattore lavora ad alta temperatura, in condizioni isoterme; i fumi uscenti dal reattore sono estremamente puliti» e da qui inizia un elenco di emissioni sotto i limiti di legge.

Due riflessioni

Due riflessioni sono, a questo punto, necessarie. La prima è che l’impianto «dimostrativo di Gioia del Colle» dove «si verificano e testano le nuove applicazioni industriali, spesso in collaborazione con i Clienti interessati» rappresenta una sorta di falso modello eco-tecnologico da esportare nel mondo. Seppur questa tecnologia non emettesse in atmosfera inquinanti, la sola produzione di anidride carbonica e il consumo energetico per mantenere temperature vicine ai 1800°-2000°C a cui opera l’impianto, in un periodo storico in cui si va verso il pieno utilizzo di sole risorse rinnovabili e una forte limitazione dei gas serra a livello globale, rendono già inutile questo tipo di tecnologia rispetto, ad esempio, a un trattamento a freddo dei rifiuti speciali e pericolosi.

Non va dimenticato che per la legge fisica di conservazione della massa termodinamica «nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma». Quindi 5 tonnellate di rifiuti in ingresso trattati da Dismo/Isotherm (come da qualunque altro impianto) restano sempre 5 tonnellate di rifiuti in uscita (anzi un po’ di più se si aggiunge il carburante per mantenere le temperature e l’ossigeno immesso). Solo che ciò che viene fuori ha semplicemente un’altra forma e una duplicata pericolosità: gas da camino e scorie dai reattori che necessitano comunque di discarica di rifiuti speciali (al di là dei bizzarri usi proposti da Itea, si veda sotto). Quello che si risparmia in volume si emette in atmosfera e si concentra nelle polveri in uscita. Tant’è che in un eccesso di foga/follia scientifica, poche righe dopo nella stessa pagina web, l’Itea si lancia nel dichiarare che l’impianto da loro consegnato a Singapore tratta «rifiuti provenienti dall’area industriale di Jurong, producendo vapore venduto ad utilizzatori locali». Ora, tutto mi è capitato di sentire dagli industriali che vogliono far passare per «ecologico e sostenibile» il loro business, ma che qualcuno possa essere interessato a comprare vapore da «venditori di fumo» mai.

Inoltre, il tanto ammirato interesse degli americani per una tecnologia che i gioiesi (ma visto il caso Emilia Romagna si potrebbe dire, gli italiani) non vogliono si rivela, qualche riga sotto, quando si menziona che «Itea sta realizzando negli Usa un impianto pilota di piccola taglia dedicato all’applicazione carbone». Carbone? Beh sì, nel 2021 qualcuno che si fregia di fantomatici premi per «innovazioni sostenibili» ancora pensa di produrre energia dal carbone. Alla faccia dei cambiamenti climatici!

Tutto questo la General Manager di Itea Spa e i chimici Itea dovrebbero conoscerlo bene, nonostante continuino a dichiarare ai giornali locali «che i cittadine e le cittadine gioiesi, ai quali è stato raccontato quanto potesse essere pericolosa Itea e di come rappresentasse uno dei maggiori problemi ambientali del territorio, il tutto senza averne reale contezza, meritino risposte e chiarezza, e perché no, anche pubbliche scuse».

Cosa emette l’impianto

Peccato che la General Manager di Itea Spa e dirigenti dimenticano tutte le volte di menzionare alcuni dettagli fondamentali per capire se davvero l’impianto possa essere pericoloso. Il primo è che, nonostante dichiarino che c’è sempre l’Arpa Puglia a controllare ogni qual volta sperimentano, la cittadinanza e l’Amministrazione comunale, da quanto risulta, non hanno mai ricevuto in quasi 20 anni alcuna relazione da parte dell’Agenzia Regionale che, tra l’altro insieme alla Asl locale, aveva manifestato parere sfavorevole alla precedente autorizzazione alla sperimentazione. L’unica analisi documentata da un ente terzo è quella del 2004, condotta da Enea, riguardante la «Caratterizzazione del particolato organico e inorganico allo scarico del reattore Isotherm Pwr» sito presso Ansaldo di Gioia del Colle. Ebbene, le conclusioni dell’analisi rivelano che «È stata condotta una campagna sperimentale sull’impianto Itea/Dismo installato presso il Centro Ansaldo Caldaie di Gioia del Colle con l’obiettivo di caratterizzare il particolato organico ed inorganico con dimensioni inferiori a 10 μm formato nel reattore di alta temperatura e a valle dell’impianto di recupero di calore bruciando come combustibili un gasolio, un olio BTZ, uno slurry di polverino di carbone ed un rifiuto. […]. La caratterizzazione del particolato formato nella combustione dello slurry e del rifiuto ha evidenziato che la maggior parte del particolato formato ha dimensioni inferiori a 0,4 μm e che l’impianto di recupero del calore aumenta la formazione di particolato attraverso la condensazione di vapori di sostanze o presenti nel combustibile o derivanti dall’erosione delle pareti del reattore. L’analisi del particolato con dimensioni submicroniche effettuata con microscopia a forza atomica e spettroscopia di assorbimento ha permesso di rilevare quantità non trascurabili di particolato con dimensioni nell’intervallo 10 – 50 nm con prevalente carattere carbonioso».

Quindi l’unica analisi disponibile su ciò che l’impianto produce ed emette rivela il dato allarmante che «l’impianto di recupero del calore aumenta la formazione di particolato», «la maggior parte del particolato formato ha dimensioni inferiori a 0,4 μm» e rileva «quantità non trascurabili di particolato con dimensioni nell’intervallo 10 – 50 nm». Sappiamo che già il PM10 (ovvero le polveri sottili di dimensioni inferiori a 10 micrometri, cioè 0,01 mm) può essere pericoloso per la salute umana. Sappiamo che il PM2,5 (ovvero le particelle di dimensioni inferiori a 2,5 micrometri, cioè 0,0025 mm) è certamente pericoloso per la salute umana e può causare vari tipi di tumori. Potete immaginare, dunque, quanto possa essere pericolosa la formazione di particolato con dimensioni inferiori a 0,4 μm, nell’intervallo 10 – 50 nm, più o meno la dimensione della catena del Dna che va da 2,2 a 2,6 nanometri, le cui unità nucleotidiche sono lunghe circa 0,33 nanometri. Anche il profano può ben comprendere che la produzione di queste polveri ultrafini è un grande fattore di rischio perché è in grado di penetrare le cellule e danneggiare il Dna. Quindi tutte queste polveri ultrafini, che non vengono nemmeno rilevate di routine dalle centraline Arpa, nei decenni di sperimentazione presso Ansaldo chi le ha respirate? Su quali zone della città sono state diffuse? Che danni alla salute pubblica e all’ambiente possono aver causato?

La stessa Itea, in una sua brochure informativa riporta i valori di rilascio in atmosfera di inquinanti in seguito ad alcune prove dimostrative. È facile che possa sfuggire a una lettura veloce, tra i tanti numeri «a posto», ciò che l’azienda riporta nel trattamento dei fanghi, ovvero un’emissione nell’aria «Verificato Isotherm» di 481 µg/m3 di nanoploveri PM2,5. Questo valore potrebbe apparire difficile da valutare senza un confronto con altre fonti di emissione. Si consideri, ad esempio il quantitativo di PM2,5 di una «sala fumatori» al chiuso. Entrando nella sala si può essere esposti a una concentrazione massima di circa 300 µg/m3 di PM2,5. Uscendo dalla sala si scende a meno di 50 µg/m3.

Considerato che, dalle prove sperimentali su fanghi, l’Isotherm/Dismo risulta emettere circa 500 µg/m3 (due volte di più di una stanza in cui tutti fumano), che l’azienda produttrice dichiara che questo è un sistema che potrebbe funzionare a ciclo continuo e che, tra gli altri, i fanghi sono tra i principali rifiuti trattati dall’impianto, si rischia di avere concentrazioni di nanopolveri nell’aria circostante l’impianto e nel cono d’ombra di ricaduta dalle principali direzioni del vento (considerato che le polveri sottili viaggiano per centinaia di chilometri) maggiori che se si trascorresse l’intera giornata in una sala fumatori.

Quindi, come confermato dallo studio del 2004 di Enea, la produzione di polveri nanometriche che sfuggono ai sistemi di cattura, sfuggono ai rilevatori Arpa e potrebbero finire nel cibo e nei polmoni della gente rappresenta una delle principali preoccupazioni riguardanti il reale impatto ambientale di Isotherm/Dismo. L’altro aspetto preoccupante emerge sempre dalla stessa brochure Itea in cui si propone di utilizzare le ceneri incombustibili in uscita dall’impianto nell’industria delle costruzioni, come abrasivo per sabbiatrici e, stando alle parole degli ideatori di questa «geniale tecnologia», negli asfalti. Potrebbe forse essere sfuggito qualche corso di chimica-fisica all’università agli esperti dell’azienda, perché altrimenti risulta difficile comprendere come possano dimenticare che gli abrasivi vanno incontro ad abrasione, i materiali costruttivi e gli asfalti ad erosione e che questo riporterebbe, in pochi anni, nell’ambiente quel cocktail di sostanze pericolose che la loro straordinaria «green technology» aveva ridotto in ceneri vetrificate. Non c’è nulla di davvero inerte in Natura, soprattutto delle polveri prodotte da un inceneritore. Come possano aver mai pensato di inglobare scorie piene di metalli pesanti, contaminanti chimici e potenzialmente cancerogeni nelle strade e nei palazzi del mondo è un altro dei mille misteri che avvolgono Sofinter/Ansaldo/Dismo/Itea/Cca.

In azione la Magistratura

Di tutte queste assurde anomalie, però, non siamo stati gli unici ad accorgerci. Evidentemente anche le forze dell’ordine e la magistratura avevano percepito le molte stranezze, tanto da mettere sotto osservazione persino con i droni l’impianto di Gioia del Colle. Ed ecco che tutti i sospetti sono diventati certezze, in flagranza. È il 21 febbraio 2019 quando la «Gazzetta del Mezzogiorno» titola: «Impianto di energia pulita smaltisce rifiuti pericolosi: sequestro a Gioia del Colle» riportando dichiarazioni sconvolgenti da parte del Gip e del Pm che hanno seguito il caso: «I carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico) di Bari e la Capitaneria di Porto, grazie anche a un’attività di monitoraggio con un drone, hanno eseguito il sequestro preventivo dell’impianto Isotherm Pwr, gestito dalla società Itea Spa, all’interno dell’insediamento AC Boylers Spa (ex Ansaldo Caldaie spa), a Gioia del Colle (Ba), perché effettuava attività di smaltimento di rifiuti anche pericolosi, tra cui materiale cancerogeno, rifiuti macinati con acqua, il tutto senza autorizzazione. […] Ispezionandolo, i militari hanno trovato anche fanghi acidi, residui di reazioni chimiche industriali, e una serie di composti chimici, cancerogeni e mutageni del feto materno. Il valore del bene sequestrato ammonta a circa 4 milioni di euro. […] Parla di «quadro di cogente pericolosità per la salute pubblica e la collettività che rende indifferibile l’adozione di una cautela reale che impedisca la prosecuzione dell’attività dell’impianto e il versamento in atmosfera di emissioni gassose» il gip del Tribunale di Bari, Giovanni Anglana […] Stando alle indagini di Noe e Capitaneria di Porto, coordinate dal pm Baldo Pisani, l’impianto trattava rifiuti di vario genere, alcuni pericolosi come solventi, fanghi da acque industriali, fanghi prodotti dal trattamento delle acque reflue, rifiuti solidi provenienti dalle operazioni di bonifica contenenti sostanze pericolose, rifiuti urbani e combustibili, fanghi acidi e oleosi, catrami acidi, carbone attivato dalla produzione di cloro e solventi organici alogenati. L’impianto fu inizialmente autorizzato, nel 2005, al trattamento in via sperimentale di rifiuti speciali anche pericolosi, ma in realtà, stando agli accertamenti tecnici disposti dalla magistratura barese, seguiva procedure di tipo tradizionali che avrebbero richiesto autorizzazioni differenti.

Nel provvedimento di sequestro si evidenzia che «gli atti amministrativi di volta in volta rilasciati dalle autorità competenti risultano non conformi alla normativa di settore». Le attività di smaltimento dei reflui compiute all’interno dell’impianto sarebbero state cioè illegittimamente acconsentite tramite «una fitta, ingarbugliata e complessa serie di provvedimenti amministrativi» nell’arco di più di un decennio, fino al 2017, rilasciati da Provincia, poi Città Metropolitana di Bari e Regione Puglia. «La stratificazione e volgarizzazione del sapere scientifico originario e il mancato apporto di metodologie innovative nella struttura dell’impianto o nel ciclo produttivo, spiega il Gip, sollevano perplessità sul meccanismo delle proroghe o della rinnovazione dell’autorizzazione alla gestione dei rifiuti in via sperimentale».

Attenzione, qui le parole dei giudici sono pesanti. Si parla di «smaltimento di rifiuti anche pericolosi, tra cui materiale cancerogeno», «quadro di cogente pericolosità per la salute pubblica e la collettività che rende indifferibile l’adozione di una cautela reale che impedisca la prosecuzione dell’attività dell’impianto e il versamento in atmosfera di emissioni gassose», «una fitta, ingarbugliata e complessa serie di provvedimenti amministrativi nell’arco di più di un decennio, fino al 2017, rilasciati da Provincia, poi Città Metropolitana di Bari e Regione Puglia» e di «stratificazione e volgarizzazione del sapere scientifico originario e il mancato apporto di metodologie innovative nella struttura dell’impianto o nel ciclo produttivo, [che] sollevano perplessità sul meccanismo delle proroghe o della rinnovazione dell’autorizzazione alla gestione dei rifiuti in via sperimentale».

Un’inchiesta lampo

Ovvero, l’impianto che era stato inizialmente autorizzato nel 2005 per la sperimentale su rifiuti speciali anche pericolosi, in realtà, con una serie di autorizzazioni e proroghe ricevute di volta in volta da enti pubblici regionali e provinciali, continuava a trattare rifiuti in maniera tradizionale (a incenerirli, sembra di capire dalle parole dei giudici) senza autorizzazione. Eppure, a meno di due anni da prove così scottanti e accuse così gravi, stando alle parole della General Manager di Itea Spa, l’inchiesta è stata in fretta e furia archiviata e l’impianto dissequestrato.

Così, una nuova proroga di due anni alla sperimentazione è arrivata puntualissima. E quindi, dove sono finiti tutti i rifiuti smaltiti illegalmente trovati dalle forze dell’ordine dopo lunghe indagini con droni e sul luogo della sperimentazione? Com’è scomparso quel «quadro di cogente pericolosità per la salute pubblica e della collettività»? Soprattutto, com’è stato possibile archiviare un’indagine con accuse così gravi da parte di Gip e Pm? Come un’inchiesta così delicata si è potuta concludere in meno di due anni? Cosa contiene il fascicolo sul caso depositato al tribunale di Bari e le motivazioni che hanno portato all’archiviazione? E come è stato possibile rilasciare così velocemente la proroga da parte della Città Metropolitana, senza chiedere consulto all’Amministrazione locale rea, comunque, di non essersi presentata all’incidente probatorio (nonostante lo stesso decreto di sequestro del tribunale individuava come parte offesa della vicenda il ministero dell’Ambiente ed il Comune di Gioia del Colle) quando, nel febbraio del 2019, fu presentata la relazione di un collegio di periti nominato dal tribunale per relazionare sulla nocività o meno dell’impianto? Se il Comune di Gioia del Colle si fosse presentato a quella seduta (del 7 novembre 2019) in cui gli esperti presentarono al giudice le loro controdeduzioni le cose sarebbero potute cambiare e oggi non staremmo qui ancora una volta a discutere dell’assurdità di questa vicenda? Sarà, quindi, stata l’assenza della principale parte lesa, ovvero la città di Gioia del Colle, a far decadere le accuse e ad aver contribuito a facilitare l’archiviazione? O un’imperizia nella perizia di parte? E come mai, mentre il Dismo/Isotherm era sotto sequestro, sono state raccolte centinaia di testimonianze con tanto di foto e video di cittadini che hanno visto uscire pesanti fumi dalla ciminiera Ansaldo? Chi bruciava? Itea o Cca? E cosa? Ed Arpa monitorava in tutte quelle occasioni? E se sì cosa ha rilevato?

Conoscere la risposta a tutte queste domande è un diritto dei cittadini sancito dalla Repubblica italiana che riconosce anche il dovere di risarcimento alle popolazioni sottoposte, consapevolmente o inconsapevolmente, a sperimentazioni industriali pericolose.

Forse veramente è arrivato il momento in cui è necessario fare piena luce su questa vicenda, unendo le forze di comitati, associazioni, carabinieri, procure e tribunali. Anche perché Gioia del Colle e i cittadini gioiesi dovrebbero, una volta per tutte, scegliere se farsi promotori di un accoglienza sostenibile di qualità sul proprio territorio ed esportatori nel mondo di mozzarella Dop, di vino primitivo e olio extravergine d’eccellenza o accoglitori locali, promotori nazionali e distributori globali di impianti sperimentali per il trattamento dei rifiuti speciali già obsoleti sul nascere, privi di qualunque raziocinio ecologico, plurisequestrati, che non offrono granché come occupazione pubblica e che, dati alla mano, non lasciano grandi dubbi sul perché non abbiano alcun senso di continuare ad esistere.

D’altronde, l’emergenza epidemiologica che riguarda le patologie tumorali a Gioia è nota da tempo,  nonostante i tentativi di ammorbidire la situazione da parte degli enti pubblici, e da un rapido confronto tra i tassi di mortalità per alcune specifiche tipologie di cancro collegate all’inquinamento ambientale (come quelli della vescica, del fegato, i linfomi e le leucemie), tra i residenti dei comuni nella Terra dei Fuochi in Campania e i cittadini gioiesi, c’è da rabbrividire nel constatare quanto siano simili e talvolta persino superiori i livelli gioiesi. L’ennesima conferma che non si può continuare a nascondere le polveri, infime (è proprio il caso di dirlo), sotto i tappeti degli interessi politici ed economici, sotto le manie di protagonismo e gli affarismi di politicanti e imprenditori per confondere, ancor di più, una popolazione che ha invece bisogno di risposte chiare da amministratori e forze dell’ordine e di certezze provenienti dai dati e dalle evidenze scientifiche, non dalle chiacchiere di paese.

Sta ora ai gioiesi decidere cosa fare della loro vita e del loro futuro!

 

Prof. Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D., Biologo ambientale ed evolutivo, Professore Associato, Tomsk State University, Russia, Senior Research Fellow, Konrad Lorenz Institute, Austria