Cambiamenti climatici – Si cerca di risparmiare sui costi

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I paesi che subiscono i danni maggiori chiedono che paghino quelli che hanno creato i danni, gli Usa vogliono far entrare nel mercato anche questi costi

Si sta svolgendo a Vienna (terminerà venerdì) il meeting Unfccc (la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite), sugli impegni per il post-Kyoto (tra i paesi che hanno ratificato Kyoto) e sul dialogo per il lungo termine (tra i paesi che non hanno ratificato Kyoto e quelli che lo hanno ratificato). In primo piano i costi.
Ieri, Yvo De Boer, responsabile della convenzione sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, ha illustrato il rapporto Unfccc sulle questioni finanziarie, le cui conclusioni dicono che per arrestare la crescita delle emissioni di gas serra entro il 2030, occorrono investimenti annui mondiali pari a 200-220 miliardi di dollari. In relazione a quanto sarà efficace questo processo di riduzione o contenimento delle emissioni, potrebbero servire, in aggiunta, da un minimo di 50 ad un massimo di 170 miliardi di dollari l’anno, per finanziare adeguati piani di adattamento nazionali, soprattutto nei paesi in via di sviluppo.
Dato il livello alto di queste cifre, la maggior parte dei delegati presenti ha reagito proponendo di studiare meccanismi e modalità di riduzione delle emissioni che penalizzino le risorse nazionali e non distorcano i mercati internazionali, cioè meccanismi che siano economicamente convenienti, come, per esempio, quello del mercato delle quote di emissione, quello degli investimenti in tecnologie pulite nei paesi in via di sviluppo (in cambio di crediti alle emissioni) o altri meccanismi che dovranno essere ricercati.
Quindi, pur con varie sottolineature, o diversi punti di vista, sembra esistere un consenso generale dei delegati all’ipotesi di mettere a punto meccanismi economico-finanziari, e di mercato, per rendere conveniente e competitiva la riduzione delle emissioni, salvo l’opposizione dell’Aosis (l’Alleanza degli Stati delle piccole isole, che comprende 43 paesi delle piccole isole di cui 22 in via di sviluppo).

La proposta Aosis e l’orientamento Usa

L’Aosis ha, infatti, proposto un meccanismo diverso: le emissioni devono rappresentare un costo per gli emettitori. In altre parole, l’Aosis punta sull’ipotesi di far pagare le emissioni con una qualche tassa idonea allo scopo, cioè rapportata sia alle quantità di emissioni sia alla tipologia delle emissioni. I proventi derivanti da questa tassa dovranno essere accantonati in un fondo finanziario, che servirà per finanziare la realizzazione di progetti, azioni e misure di adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi più poveri.
I paesi più poveri, che sono i meno responsabili dei cambiamenti climatici, sono, infatti, quelli che subiranno le maggiori conseguenze negative ed i danni dei cambiamenti del clima. Ebbene, sottolinea l’Aosis, questioni di equità e di giustizia internazionale impongono che chi si rende responsabile dei danni altrui, provveda a prevenirli e a pagarli.

Dopo la cerimonia di apertura, infatti, i paesi Aosis, hanno chiesto che nella fase post 2012, i paesi in via di sviluppo siano suddivisi in due categorie:
– paesi poveri: quelli che non emettono gas serra, o ne emettono in quantità insignificanti a livello globale, ma che subiranno i maggiori danni dei cambiamenti del clima e non sono in grado di «adattarsi»
– paesi emergenti: quelli che emettono gas serra in modo significativo, o sempre più significativo, a livello globale, e che saranno in grado di far fronte ai danni dei cambiamenti climatici, ma anche di adattarsi.
Di conseguenza impegni ed obblighi dovranno essere commisurati su tre categorie di paesi:
– quelli industrializzati, che dovranno procedere alla riduzione delle proprie emissioni e finanziare il processo di adattamento ai paesi poveri;
– quelli emergenti, che dovranno procedere a ridurre le proprie emissioni e, ove possibile, aiutare i paesi più poveri;
– quelli poveri, che non avranno obblighi o impegni di riduzione delle emissioni, ma diritti ad essere risarciti per i danni provocati dai paesi precedenti.

Un’attenzione particolare è puntata agli interventi dei delegati Usa. L’orientamento emerso, o per lo meno si crede sia emerso, è che:
– gli Usa intendono coinvolgere in un accordo «ad hoc» i paesi (sviluppati ed in via di sviluppo) che sono i maggiori emettitori globali di gas serra, in pratica oltre ai paesi industrializzati anche Cina, India, Brasile, Messico, Corea, Sud-Africa salvo altri;
– l’accordo «ad hoc» dovrebbe mettere in moto un mercato internazionale sul commercio delle quote (o dei permessi) di emissione in cui entrano a far parte anche i crediti di emissione (convertiti in permessi di emissione) acquisiti attraverso il «clean development mechanism» con i paesi in via di sviluppo che non fanno parte dell’accordo «ad hoc»;
– gli obiettivi dell’accordo (riduzione delle emissione e tempi di riduzione) non sono obblighi vincolanti, ma sono impegni volontari «a tempo limitato» che periodicamente verranno rivisti attraverso un meccanismo di «pledge and review»;
– l’accordo deve mettere in moto una crescita socio economica, in cui la lotta ai cambiamenti climatici e la protezione dell’ambiente sono parti integranti della libera economia di mercato e devono, pertanto, rappresentare un investimento economicamente produttivo.

Come si vede, da quest’ultimo punto, si marcia su filosofie diametralmente opposte. Gli Usa continuano sul primato del mercato ed arrivano a far entrare nel gioco anche i danni da esso prodotti.