C’è solo il tempo stretto del parlarsi

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Questa rubrica è dedicata alla salute ed a tutto il mondo che gira attorno ad essa. Poche parole, pensieri al volo, qualche provocazione, insomma «pillole» non sempre convenzionali. L’autore è Carlo Casamassima, medico e gastroenterologo, ecologista nonché collaboratore di «Villaggio Globale». Chi è interessato può interagire ponendo domande

Il paziente che si rivolge al medico lo fa in genere per affrontare una malattia o un disturbo che egli mette in relazione con uno stato assimilabile a quello comunemente inteso come malattia. Le decine di persone che quotidianamente affollano gli studi medici (in particolare quelli dei medici di famiglia) vanno a lamentarsi di mille piccoli o grandi problemi che vengono «letti» dal paziente ed «analizzati» e «curati» dal medico all’interno di una dinamica che è quella di uno stato di salute originario trasformatosi col tempo in una condizione diversa, una condizione di perdita di quell’equilibrio iniziale di benessere e buona salute, una condizione di patologia meritevole di approfondimenti e rimedi.
Chi fa il medico, però, impara quasi subito che dietro quella domanda di benessere c’è molto spesso qualcosa di diverso e di più complesso (o anche di più semplice) vale a dire una condizione di disagio e di difficoltà che non infrequentemente trova nella malattia (reale o presunta) il pretesto sociale per essere comunicato e partecipato. Il lamento sul dolore che non trova rimedio o sulla palpitazione che ci lascia interdetti o sulla difficoltà a digerire o sui mal di testa che si ripresentano è in realtà (fatte salve le condizioni specifiche che la medicina ha imparato bene a gestire) il lamento di chi molto spesso vorrebbe comunicare un condizione esistenziale o psicologica di difficoltà ad accettare la propria condizione o di impossibilità a convivere con inconvenienti magari propri dell’età ma che non trovano sfogo in luoghi diversi da quello dell’ambulatorio del medico di medicina generale.
Ne sanno qualcosa tutti i professionisti della salute che vedono gran parte del proprio lavoro assorbito dalla necessità di spendere una parola comprensiva con l’anziano solo e timoroso di sé e del proprio destino (prima ancora che del dolore lombare che in quel momento ci rappresenta) o con la donna oberata dal proprio lavoro di madre, moglie e lavoratrice che si lamenta di una condizione di «debolezza» o di astenia (chiedendo vitamine o «integratori») oppure con il dipendente che lamenta continui mal di testa («voglio fare una Tac o una Risonanza!») senza pudicamente voler mettere sul tappeto la questione di un rapporto conflittuale con il proprio datore di lavoro o con i colleghi.
La medicina, così come la pratichiamo e la viviamo oggi, è più spesso medicina di domanda di salute a partire da un pretesto patologico (così come la società ed il sistema dell’assistenza sanitaria nazionale tradizionalmente prevedono) ma che nasconde dietro di sé una condizione di malessere psicologico o di inquietudine esistenziale che però è ritenuto poco opportuno esprimere pubblicamente e di cui di fatto non si tiene conto al momento della instaurazione della dinamica medico-paziente. È così che il «malato», consapevole di questa limitatezza nell’approccio, sempre di più chiede (o gradisce) un approccio più globale, più completo, su cui si fonda l’idea a volte troppo enfatizzata di medicina olistica.
Beninteso: non che la medicina non debba essere olistica e non debba mirare a guardare l’uomo nella sua complessità anziché il singolo malfunzionamento di quell’organo o di quell’altro apparato. Il problema è che l’organizzazione della dinamica medica all’interno della tipologia di servizi che abbiamo strutturato non può trovare una soluzione ugualmente accettabile sia da parte del medico sia da parte del paziente. Siamo più chiari: all’anziano che vivendo da solo ci chiede un farmaco per il proprio stato di depressione bisognerebbe offrire molto più che un ansiolitico o un antidepressivo così come alla ragazza madre che dice di soffrire di cardiopalmo sarebbe più giusto mettere a disposizione un colloquio sui suoi problemi di natura economica o lavorativa piuttosto che l’ennesimo controllo cardiologico o un ripetitivo esame del sangue.
Il nodo, però, sta nel chi può e deve fare cosa. Si può chiedere ad un medico di famiglia di esser psicologo, confidente ed assistente sociale in un contesto in cui la società (perdendo il senso della lettura solidale di queste difficoltà) si scolla di dosso i propri compiti e tende opportunisticamente a medicalizzare ogni forma di disagio? Il medico spesso fa del proprio meglio, più spesso fa meno di quello che il paziente vorrebbe ricevere. Servirebbe altro, ne siamo tutti consapevoli. Servirebbe ad esempio uno psicologo di base, in molti casi, che «prenda in carico» molti di coloro i quali hanno necessità di «raccontare» il proprio disagio, accettandolo in alcuni casi o rimuovendolo in altri, in un contesto di sinergia e collaborazione.
Molti pazienti sono persone che hanno «solo» voglia e necessità di parlare e comunicare, perché parlando e comunicando si riesce in tantissimi casi a depotenziare ansie, a comprendere l’essenza di alcuni malanni con cui poi si può convivere serenamente, a risolvere quelle condizioni che sono causa di vere e proprie malattie. Ma in questo mondo fatto di troppe cose da fare e di «risultati quantificabili» da raggiungere il tempo per parlarsi non c’è e probabilmente è sbagliato chiederlo (solo) al medico. Ci stiamo abituando a chiedere alle medicine un aiuto, quando invece un colloquio settimanale con un professionista preposto alla gestione di queste problematiche farebbe di certo meglio. Ma in un sistema sanitario che limita i pannoloni ai vecchietti allettati chi ha il coraggio di chiedere lo psicologo di base per trattare le malattie dell’animo?