Degrado dei suoli? chiedete prima all’Ipbes

2415
Report Ipbes
Tempo di lettura: 3 minuti

In un recente report vengono analizzati tutte le Regioni terrestri ed i biomi del mondo, riconoscendo che gli elementi di processo del degrado dei suoli possono variare in modo sensibile all’interno delle Regioni e dei Paesi; l’esame include l’intera gamma di sistemi modificati dall’uomo, non limitandosi alle zone aride ma contemplando anche sistemi agricoli e agroforestali, savane e foreste e sistemi acquatici associati a queste aree

Da ormai qualche anno sembra che i problemi legati alle trasformazioni dei suoli e dei cicli climatici abbiano preso spazio nelle agende dei Governi, soprattutto dei Paesi «sviluppati». Così, è un fiorire di panel intergovernativi mondiali, di Conferenze tematiche mondiali e di costituzione di gruppi di lavoro internazionali.

Con notevole dispendio, v’è da dire, di carburante per i voli aerei che trasportano di qua e di là nel globo le pletoriche delegazioni, con conseguenti e corpose emissioni di gas serra.

Ed è da ormai circa un decennio che si cerca anche di attribuire, per via modellistica, un valore economico alle risorse naturali, agli ecosistemi ed ai «servizi» che essi offrono alle comunità umane in termini di benessere, di utilizzazione delle stesse risorse e di mantenimento della biodiversità.

Finora, una serie di formule econometriche, di modelli matematici e di scenari volti a tali misurazioni, hanno tentato di fare breccia nelle politiche dei singoli Stati per influenzarne le scelte di infrastrutturazione del territorio e di utilizzazione delle risorse naturali. Con scarso successo, bisogna dire. Anche perché, forse, è insito nello stesso tentativo di attribuire a tali risorse ed alle relative funzioni ecologiche un valore economico, il rischio di offrire un ulteriore vantaggio a scelte politiche orientate alla loro disastrosa utilizzazione.

Tra i panel costituitisi in questi anni, c’è l’Ipbes (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) con sede a Bonn, in Germania, che ha l’obiettivo di «fornire ai governi, al settore privato ed alla società civile valutazioni indipendenti scientificamente credibili ed aggiornate alle migliori conoscenze disponibili, per prendere decisioni più informate a livello locale, regionale ed internazionale».

A fine gennaio scorso l’Ipbes ha pubblicato un report sulla valutazione della degradazione e del restauro del suolo «realizzato da 98 autori selezionati e 7 giovani borsisti, assistiti da 79 collaboratori, che hanno analizzato una grande quantità di fonti, di cui circa 4.000 scientifiche».

Il report procede ad un esame critico dello stato delle conoscenze per quanto riguarda l’importanza, gli elementi di funzionamento, lo stato di salute e le tendenze degli ecosistemi terrestri.

Lo stesso report riconosce che combattere il degrado del suolo, ormai pervasivo e sistemico fenomeno che si verifica in tutte le parti del mondo, è un’urgente priorità per proteggere la biodiversità ed i servizi ecosistemici.

Identifica, quindi, un mix di azioni di governo, di politiche e di pratiche di gestione che possono aiutare a sostenere la riduzione delle conseguenze negative ambientali, sociali ed economiche causate dal degrado dei suoli e per restaurarne le buone funzioni ecologiche.

Nel volume vengono analizzati tutte le Regioni terrestri ed i biomi del mondo, riconoscendo che gli elementi di processo del degrado dei suoli possono variare in modo sensibile all’interno delle Regioni e dei Paesi; l’esame include l’intera gamma di sistemi modificati dall’uomo, non limitandosi alle zone aride ma contemplando anche sistemi agricoli e agroforestali, savane e foreste e sistemi acquatici associati a queste aree.

Un lavoro certo importante e con un’ottima base di dati, che molto si concentra sullo sviluppo di ragionamenti e di valutazioni nell’ambito di strutture modellistiche che potrebbero anche far sorgere il dubbio popperiano del «mito della cornice», in cui tutto deve essere assolutamente sistemato e codificato.

Il report passa in rassegna alcuni casi di restauro ecologico che hanno avuto successo. Tra essi vi è quello della laguna costiera di Lake Chilika, nello Stato di Odisha, in India su cui si sviluppa la pressione antropica di 200.000 pescatori e 400.000 agricoltori. Lì, nel 2000, è stata aperta una nuova bocca di collegamento al mare che ha consentito una stabilizzazione della quantità di pescato a circa 13.000 t/anno. Allo stesso tempo, i monitoraggi delle popolazioni di delfino della specie Orcella asiatica (Orcaella brevirostris) hanno registrato un aumento da 89 a 158 individui tra il 2003 ed il 2015, nonché un aumento nell’uso dell’habitat, come pure nella riproduzione e nella dispersione, ed un calo dei tassi di mortalità.

Le comunità di piante marine hanno ampliato le superfici di distribuzione passando da 20 km² nel 2000 agli attuali 80 km² con un significativo declino delle specie invasive di acqua dolce.

Ecco, il fatto che un intervento di buona gestione di un importante sistema lagunare costiero realizzato nel 2000 abbia dato questi risultati, può significare almeno due cose: che in un tempo in cui, all’inizio del secolo presente, non erano ancora sviluppate teorie di misurazione economica dei servizi ecosistemici, il buon senso ed il coinvolgimento dei detentori di interessi di quella zona ha determinato un miglioramento delle «produttività» dell’ecosistema lagunare con un incremento della biodiversità.

Ed ancora, che quella esperienza potrebbe essere ben valutata per restaurare le funzioni delle lagune costiere pugliesi (di Lesina e Varano, ad esempio) condannate ancora oggi ad uno stato di declino ecologico e produttivo per la totale assenza di gestione coordinata.

Val la pena, infine, rilevare che tra i casi di successo citati nel ponderoso report (circa 700 pagine), non vi è alcuno che riguardi la Vecchia Europa. La culla del «mito della cornice».

 

Fabio Modesti, Politiche per la conservazione della natura