Stop ai cambiamenti climatici, decarbonizzare subito
Il motivo delle ripetute epidemie è noto e gli allarmi sono stati lanciati da tempo. Le nuove situazioni climatiche stanno sconvolgendo il nostro pianeta e bisogna subito intervenire. Stop agli aiuti ai petrolieri e la politica pensi ai problemi reali non al consolidamento di poteri
Complice, purtroppo, il Covid-19, anche gli analfabeti hanno appreso la relazione fra inquinamento da polveri sottili, cambiamenti climatici e virus. Ma nonostante la conoscenza fosse a disposizione di tutti da più di trent’anni nulla o molto poco è stato fatto.
Quello che scoraggia e non promette bene per il nostro futuro è il rincorrere sempre le emergenze. In questo momento si cercano le risorse per far fronte ai bisogni della popolazione, si varano leggi di aiuto per la sanità, le famiglie, le imprese ma nulla per le cause.
Come al solito si pensa alle conseguenze e non si intercettano le cause.
È difficile? Occorrono ancora studi? No. Perché le linee guida per intervenire e sterzare verso uno stile di vita sostenibile ci sono già, e si chiamano decarbonizzazione.
La strada obbligata è togliere gli aiuti ai petrolieri che hanno fatto investimenti sbagliati e che continuano ad ostacolare l’avvio deciso delle fonti alternative. Quindi è lì che ci sono da anni le risorse sottratte allo sviluppo sostenibile, è quella la causa che alimenta i cambiamenti climatici che a loro volta stanno favorendo l’irrompere di epidemie.
Un allarme antico
Non c’è da studiare ancora, pena essere accusati di complicità dalle generazioni future.
Già nel 1998, un gruppo di esperti governativi americani, tra cui Thomas Karl, del Centro climatico nazionale di Asheville, nella North Carolina, studiando i comportamenti del Niño in relazione ai cambiamenti climatici, sostenevano che potevano esserci l’esplodere di epidemie e l’aumento di guerre.
Nel 1995, il Rapporto Ipcc aveva già detto che ci sono «epidemie che alcuni esperti riconducono a mutamenti climatici già in atto (negli ultimi cento anni, sottolineava il Rapporto, la temperatura è aumentata di 0,3-0,6 gradi e il livello del mare si è innalzato di 10-25 centimetri)»…
Ma gli allarmi si sono moltiplicati e l’anno dopo l’allarme è stato lanciato dall’Oms, poi dalle grandi compagnie d’assicurazione del pianeta che hanno espresso la loro preoccupazione in conseguenza all’effetto serra per le previste catastrofi naturali conseguenza di scioglimento dei ghiacci, le inondazioni, le epidemie che sono diventate un incubo per gli assicuratori.
Segnalazioni incessanti che rendono ancora più incomprensibile l’inazione dei governi.
Anche perché la ricerca si è spinta ad entrare nel dettaglio come il rapporto fra polveri sottili e malattie respiratorie e sappiamo che è qui che gli attacchi del Coronavirus attecchiscono più facilmente.
Già nel 1996 si denunciò che il rischio polveri colpisce soprattutto chi è già affetto da patologie croniche cardiovascolari o respiratorie. Lo spiegò Francesco Forastiere, dell’osservatorio epidemiologico della regione Lazio, che collaborò a studi relativi agli effetti dell’inquinamento urbano sulla salute. «L’ipotesi più accreditata – disse Forastiere – è che tali particelle ultrasottili, anche se di diametro piccolissimo, sarebbero chimicamente attive ed in grado di indurre una reazione infiammatoria del polmone profondo. Da questo processo infiammatorio potrebbero originare mediatori in grado di alterare i fattori di coagulabilità e quindi di indurre eventi acuti cardiovascolari anche letali».
E non si sono fermati gli studi successivi. In un ultimo rapporto di ricercatori delle università di Bologna, Bari, Milano, Trieste e della Società italiana medicina ambientale, si sottolinea che «riguardo agli studi sulla diffusione dei virus nella popolazione vi è una solida letteratura scientifica che correla l’incidenza dei casi di infezione virale con le concentrazioni di particolato atmosferico (es. PM10 e PM2,5).
«È noto che il particolato atmosferico funziona da carrier, ovvero da vettore di trasporto, per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus. I virus si “attaccano” (con un processo di coagulazione) al particolato atmosferico, costituito da particelle solide e/o liquide in grado di rimanere in atmosfera anche per ore, giorni o settimane, e che possono diffondere ed essere trasportate anche per lunghe distanze».
E alla fine «si evidenzia come la specificità della velocità di incremento dei casi di contagio che ha interessato in particolare alcune zone del Nord Italia potrebbe essere legata alle condizioni di inquinamento da particolato atmosferico che ha esercitato un’azione di carrier e di boost. Come già riportato in casi precedenti di elevata diffusione di infezione virale in relazione ad elevati livelli di contaminazione da particolato atmosferico, si suggerisce di tenere conto di questo contributo sollecitando misure restrittive di contenimento dell’inquinamento».
I nuovi pericoli
E non finisce qui, perché le azioni errate portate avanti dalla febbre della crescita infinita e senza limiti, già prefigura altri pericoli, a cominciare dalla malaria.
Nel luglio del 1996 l’Oms diede l’allarme e segnalò che l’Italia, insieme ad altri Paesi sviluppati, avrebbe potuto essere esposta alla malaria nel prossimo futuro come conseguenza dell’effetto serra. Nel suo rapporto «Cambiamenti climatici e salute» l’Organizzazione mondiale della sanità cita tra le nazioni che rischiano di trovarsi a dovere affrontare serie epidemie di malaria anche la Spagna, il Portogallo, la Grecia, gli Stati uniti e l’Australia, oltre all’Italia. Venti milioni di persone al mondo sono attualmente (nel 1996, N. d. R.) infette da malaria, e molte di esse sono destinate a morire. Ma, entro il 2050, «si potrebbe registrare un milione di morti in più ogni anno», afferma il rapporto.
Aumento che si è puntualmente verificato tanto che la Società italiana di parassitologia (Milano, 26-29 giugno 2018), ha richiamato alla necessità di includerla nell’attuale potenziamento della sorveglianza delle malattie trasmesse da vettori. In Italia, infatti, al pari di altri Paesi dell’Unione europea, per far fronte ai mutamenti a cui sta andando incontro la nostra società (come viaggi e commerci internazionali, cambiamenti climatici e ambientali, flussi migratori) si deve porre la massima attenzione verso una sorveglianza continua di queste malattie per la presenza sul territorio di specie di vettori competenti. In Italia continuano a essere presenti zanzare del genere Anopheles, potenziali vettori di malaria, principalmente appartenenti al complesso maculipennis. In particolare, Anopheles labranchiae, che storicamente è stato il vettore maggiormente implicato nella trasmissione delle infezioni plasmodiali nel nostro Paese, ed è ancora ampiamente diffuso lungo le coste delle Regioni centro-meridionali e delle isole maggiori, dove può raggiungere anche densità rilevanti.
Ma se questo è un allarme già dato da tempo nuovi si affacciano, come quello segnalato dalla pericolosità dello scongelamento del permafrost, e Andrea Pinchera segnala che «nel gennaio 2020, un team di scienziati cinesi e statunitensi ha comunicato di avere rintracciato all’interno di campioni di ghiaccio di 15mila anni fa, prelevati dall’Altopiano tibetano, ben 33 virus, 28 dei quali sconosciuti».
Quindi il «nemico» è noto, e da tempo, e l’abbiamo allevato noi, si chiama cambiamento climatico. La politica mondiale è fortemente complice dei danni perché ha pensato al suo personalissimo orticello, nascondendosi ed alimentando l’incertezza sull’origine della causa di questo cambiamento climatico. Sono così cresciute malattie, epidemie, danni da fenomeni estremi… un disastro economico che è stato ed è concausa delle crisi finanziarie a ripetizione. E cosa abbiamo fatto? Abbiamo continuato a festeggiare, consumare, fare guerre, accusare a manca e a destra pur di accumulare voti e, danno gravissimo, smantellare la sanità pubblica.
Chissà se ora, che anche alcuni politici sono colpiti personalmente, chiederanno perdono come l’Innominato al tempo della peste.
Ignazio Lippolis