L’olivo bio capofila nella lotta ai cambiamenti climatici
Nei soli sette anni analizzati il suolo delle coltivazioni di olivo ha immagazzinato circa 6mila tonnellate di carbonio in più rispetto allo stock iniziale. Questa quantità equivale a 22mila tonnellate di anidride carbonica
Molti composti chimici presenti nell’atmosfera terrestre si comportano come «gas serra». Questi gas consentono alla luce solare diretta (energia ad onde corte) di raggiungere senza ostacoli la superficie terrestre. Mentre l’energia a onde corte (quella nella parte visibile e ultravioletta degli spettri) riscalda la superficie, l’energia (calore) a onde lunghe (infrarossi) viene re-irradiata nell’atmosfera. I gas a effetto serra assorbono questa energia, impedendo così a una quota del calore di ritornare nello spazio, intrappolandola nell’atmosfera inferiore. La presenza in atmosfera dei gas serra permette alla Terra di avere una temperatura media globale di circa 15°C, la quale sarebbe -18°C nel caso in cui non ci fossero i gas serra.
L’effetto serra
Molti gas serra si trovano naturalmente nell’atmosfera, come l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4), il vapore acqueo e il protossido di azoto (NO2). Altri sono di origine sintetica, prodotti dall’uomo, e comprendono i clorofluorocarburi (CFC), gli idrofluorocarburi (HFC) e i perfluorocarburi (PFC), nonché l’esafluoruro di zolfo (SF6).
Le emissioni di questi gas, sia naturali sia artificiali, sono aumentate a partire dalla rivoluzione industriale (1750 circa), che ha fatto aumentare la nostra dipendenza dai combustibili fossili (come carbone, petrolio e gas naturale). La combustione delle fonti fossili di energia (carbone, petrolio e gas), la produzione di cemento, l’allevamento di animali domestici e la trasformazione di uso del suolo (particolarmente la deforestazione) sono tra le principali cause dell’aumento delle emissioni di gas-serra e del loro accumulo in atmosfera. La concentrazioni atmosfera di CO2, il principale dei gas-serra, è passata da 280 ppm a 415 ppm.
Gli scienziati sono convinti che l’alterazione della concentrazione dei gas serra in atmosfera sia la causa principale del riscaldamento globale (stimato, nel 2019, in circa 1,2°C in più rispetto all’era pre-industriale) e dei conseguenti cambiamenti climatici, i quali si manifestano in forme diverse: maggiore frequenza, intensità ed estensione di eventi meteo-climatici estremi, la riduzione della copertura nevosa e della massa dei ghiacciai polari e alpini, l’innalzamento del livello dei mari e degli oceani, trasformazione (espansione per alcuni, riduzione per altri) degli areali degli habitat per piante e animali, la perdita di biodiversità e dei servizi che la natura ci offre.
L’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici impegna le nazioni a mantenere «l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto a quella preindustriale» e perseguire così l’obiettivo cardine della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici di «prevenire pericolose interferenze umane col sistema climatico».
La stessa Convenzione ha individuato due fondamenti per affrontare i cambiamenti climatici: la mitigazione e l’adattamento.
Il primo include tutte le misure che portano a una riduzione delle emissioni in atmosfera dei gas-serra. L’Intergovernmental Panel on Climate Change sostiene che per avere possibilità concrete di raggiungere questo target sia necessario ricorrere su larga scala a tutte le opzioni di mitigazione, dallo sviluppo di fonti rinnovabili di energia in sostituzione delle fossili al miglioramento dell’efficienza di produzione di energia, dalla trasformazione radicale dei modi di produrre e consumare beni e servizi all’applicazione di tecniche di geo-ingegneria che rimuovono anidride carbonica (CO2) dall’atmosfera.
Queste ultime sono al momento però in fase di sperimentazione e sviluppo. Finora, il metodo più «maturo» di rimozione della CO2 dall’atmosfera si basa sulla capacità da parte della piante (e di altri organismi provvisti di clorofilla) di assorbire CO2 e «sequestrarla», per tempi che vanno da pochi mesi a diversi secoli, nelle piante (radici, rami e parti verdi), nella lettiera e nel suolo (sotto forma di sostanza organica). Attraverso interventi di miglioramento della gestione degli ecosistemi e del territorio è possibile: (I) aumentare il sink di carbonio (cioè un bilancio positivo tra assorbimenti ed emissioni di CO2 per unità di superficie); (II) ridurre le emissioni derivanti dalle attività di uso del suolo (per esempio evitando la deforestazione e la degradazione delle foreste e di habitat come prati, paludi, torbiere). Gli interventi sugli ecosistemi che consentono di rimuovere CO2 dall’atmosfera (per esempio: creazione di nuove foreste) o di ridurne o ritardare il ritorno verso l’atmosfera della CO2 e altri gas serra (per esempio: creazione di un’area protetta o lotta agli incendi) vanno sotto il nome di Nature-based Solutions, in breve NbS.
Soluzioni naturali per la cattura della CO2
Esistono decine di tipologie di NbS che, se dispiegate su grande scala (pur con le limitazioni poste dalla necessità di garantire la fornitura di tutti i servizi ecosistemici da parte degli ecosistemi, inclusa la sicurezza alimentare e la conservazione della biodiversità) possono sequestrare circa 14 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno, contribuendo per oltre un terzo agli sforzi globali di mitigazione che dovremmo realizzare tra oggi e il 2030 per stabilizzare il riscaldamento a meno di 2°C, come chiede l’Accordo di Parigi.
È da segnalare che la maggior parte delle NbS, se attuate in modo efficace, offrono altri benefici ambientali, tra cui: filtrazione dell’acqua, protezione da inondazioni e altri eventi meteo-climatici estremi, riduzione dei rischi legati ai disastri naturali o antropici, miglioramento della qualità dei suoli, tutela della biodiversità e maggiore resilienza climatica, disinquinamento dei suoli.
L’agricoltura biologica
Il sequestro del carbonio nei suoli agricoli (la cui concentrazione è storicamente diminuita a causa dell’espansione dei sistemi agricoli intensivi) su scala globale è considerato il meccanismo responsabile del massimo potenziale di mitigazione nel settore agricolo, con un contributo stimato del 90% del potenziale di sequestro del carbonio «tecnicamente» fattibile. Vi sono numerose pratiche agronomiche che potrebbero portare a una riduzione delle perdite di carbonio o persino a un maggiore stoccaggio del carbonio nel suolo. Queste pratiche includono l’impiego di varietà migliorate, l’estensione delle rotazioni delle colture, la riduzione del numero e dell’intensità delle lavorazioni meccaniche, l’inerbimento o la semina leguminose foraggere che allocano più carbonio nei suoli, evitando o riducendo l’uso di maggese nudo, e l’applicazione di fertilizzanti organici come compost o prodotti di scarto della zootecnia (liquami o letame).
Queste pratiche non sono comuni nell’attuale agricoltura convenzionale, ma sono fondamentali per l’agricoltura biologica, in cui la produzione agricola si basa in gran parte su cicli nutritivi chiusi restituendo alla terra residui vegetali e concimi dal bestiame e/o integrando piante perenni, nel sistema. Sono numerosissimi gli studi (anche se non mancano quelli che sono giunti a risultati opposti) che hanno dimostrato che l’adozione dell’agricoltura biologica comporta non solo una riduzione delle perdite di carbonio nel suolo, ma anche un sequestro netto del carbonio (carbon sink) nel tempo.
Per questo l’introduzione dell’agricoltura biologica è considerata un’opzione interessante e sostenibile per la mitigazione dei gas serra (GHG) in agricoltura.
La coltivazione dell’olivo
In questo senso un notevole contributo proviene dalla coltivazione dell’olivo. Un miliardo e mezzo di piante in 10 milioni di ettari rappresentano nel Mondo un fantastico alleato contro il degrado ambientale. Una coltura presente in tutto il globo, con una presenza notevole nell’area del Mediterraneo (95% della produzione mondiale di olio di oliva). In Italia vengono coltivati 180 milioni di olivi su una superficie di 1,2 milioni di ettari, di cui 80% secondo il metodo convenzionale di produzione agricola e il 20% secondo il metodo (disciplinato da uno specifico Regolamento Ue) dell’agricoltura biologica.
Una coltivazione presente in tutte le regioni italiane tranne che nella Valle d’Aosta, con una concentrazione nelle regioni del sud Italia. Con Puglia (33%), Calabria (16%) e Sicilia (14%) che rappresentano il 63% della superficie nazionale e il 66% della produzione nazionale.
Abbiamo cercato di stimare, sulla base dei dati e delle informazioni disponibili in letteratura, il contributo dell’olivicoltura biologica nella mitigazione dell’effetto serra.
Nella Figura 1 abbiamo sintetizzato gli andamenti della Superficie agricola utilizzata (Sau) destinata alla coltura dell’olivo nel periodo 2010-2018 nei diversi contesti regionali. Nei grafici della tabella 1 sono rappresentati per ogni anno le coltivazioni convenzionali (grigio) e le coltivazioni biologiche (verde). Inoltre si sono mantenuti in ogni grafico le stesse scale per ascisse e ordinate in modo da rendere più evidente la consistenza dell’olivicoltura tra le diverse regioni.
In funzione di questa distribuzione e dell’evoluzione nel periodo 2010-2018 delle coltivazioni regionali e tenendo conto della distinzione tra coltura convenzionale e coltura biologica, si è proceduto alla stima del carbon sink per ogni tipo di coltura. I parametri utilizzati per la stima sono stati di 1,17 tonnellate di carbonio per ettaro l’anno (tC ha-1 a-1) per il suolo biologico e di 0,52 t C ha-1 a-1 per il suolo convenzionale (Mohamad et al. 2016). I risultati per regione nel periodo considerato sono sintetizzati nella Figura 2
Nei soli sette anni analizzati il suolo delle coltivazioni di olivo ha immagazzinato circa 6mila tonnellate di carbonio in più rispetto allo stock iniziale. Questa quantità equivale a 22mila tonnellate di anidride carbonica. Delle 6mila tonnellate di carbonio: 4mila vengono da coltura convenzionale e 2mila da coltura biologica, questo significa che un 20% della superficie totale coltivata con metodi biologici contribuisce per circa il 33% del sequestro totale di carbonio. Il carbon sink della olivicoltura nazionale può aumentare in maniera significativa se, nei prossimi anni, avverrà una crescita delle coltivazioni biologiche, come richiede la strategia Ue per la biodiversità per il 2030 e la strategia Farm to Fork.
Inoltre va considerato che il contributo della coltivazione dell’olivo non si ferma nel sequestro che avviene nel suolo ma si estende anche al sequestro nella biomassa della pianta. Mediamente una pianta di olivo sequestra nelle radici, nel colletto, nel tronco circa il 58% del carbonio, mentre il 42% viene sequestrato nei frutti, nei rami e nelle foglie (Proietti, 2014). Quindi il 42% del totale di carbonio sequestrato si perde con la potatura, ma il restante 58% rimane sequestrato per molti anni. Considerando che in gran parte delle regioni italiane le piante di olivo hanno un’età superiore ai cento anni, è evidente l’importanza come deposito di carbonio (carbon stock) dell’olivicoltura. I dati in letteratura stimano che lo stock di carbonio sia pari alla metà del suo peso a secco. Quindi una pianta da 100 kg sequestra circa 50 kg di carbonio. Se consideriamo che un olivo secolare può tranquillamente pesare intorno ai 1.800 kg vediamo come il suo sequestro può raggiungere i 900 kg.
Bibliografia
- Ramez Saeid Mohamad, Vincenzo Verrastro, Lina Al Bitar, Rocco Roma, Michele Moretti, Ziad Al Chami Effect of different agricultural practices on carbon emission and carbon stock in organic and conventional olive systems, Soil Research, 2016
- Stefania Proietti, Paolo Sdringola, Umberto Desideri,Francesco Zepparelli,Antonio Brunori,Luana Ilarioni,Luigi Nasini,Luca Regni,Primo Proietti, Carbon footprint of an olive tree grove, Applied energy, 2014
Roberto Daffinà, Lorenzo Ciccarese