Ma queste trivelle convengono?

2905
trivelle petrolio
Tempo di lettura: 8 minuti

La fattibilità ambientale. I costi. Il confronto con altre esperienze produttive. I termini in scadenza. L’Europa dovrà decidere

La cosiddetta transizione energetica, va detto subito, a scanso di equivoci, è molto più che un obbligo dovuto all’inquinamento e ai mutamenti climatici, è, invece, frutto della insopprimibile aspirazione dell’umanità al progresso, e si alimenta grazie alla ricerca scientifica e all’avanzare incessante delle tecnologie, che ci permettono di migliorare costantemente il rapporto tra uomo e natura.
È in questo senso che va inteso il Green deal europeo, che quindi non va frenato da scetticismi, prudenze o alibi di sorta. Non valgono le argomentazioni di chi ritiene inutili gli sforzi di Europa e Italia, se non li faranno altri (India e Cina in testa).
Questo non ha senso, dato che intanto bisogna pure che qualcuno cominci a muoversi nella direzione giusta, e visto che comunque la Cina è già diventato il primo Paese al mondo per crescita delle rinnovabili.
Ogni Paese, pertanto, la deve affrontare avendo ben presenti la propria storia energetica, la sicurezza dei suoi approvvigionamenti, la sostenibilità sociale, oltre che ambientale, del percorso.
In Italia ci si era avviati su questa strada con il Piano nazionale energia e clima del 2019, che prevedeva ambiziosi obiettivi generali di decarbonizzazione, accompagnati da specifici piani per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai), al fine di rendere le attività Oil & Gas compatibili con il generale processo di transizione, e introducendo contemporaneamente una moratoria sulle attività di prospezione di idrocarburi, in attesa di verificare la fattibilità ambientale dei progetti.
A distanza di due anni l’Italia, per inadempienze e ritardi dei decisori pubblici, non ha ancora redatto il Pitesai.
Interrompere ex abrupto la prospezione di idrocarburi (mentre continuano tranquillamente a farlo i nostri dirimpettai adriatici) significherebbe sostituire con gas di importazione l’attuale produzione nazionale di metano (circa 5 miliardi di metri cubi all’anno), con l’effetto pesantemente negativo della cancellazione, tra l’altro, di decine di imprese di settore, innovative e già attivamente impegnate nella transizione (soltanto nell’area del Ravennate si stima che siano in gioco più di 10mila posti di lavoro).
In queste settimane il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha firmato i decreti ambientali, in vista delle autorizzazioni amministrative finali.
Nel frattempo il decreto «Milleproroghe» ha fissato al 30 settembre 2021 il termine per l’adozione del Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai). Alla stessa data viene fissato il termine per la ripresa dell’istruttoria, in caso di mancata adozione del Pitesai, dei procedimenti di concessione sospesi e per la ripresa dell’efficacia dei permessi di prospezione e ricerca sospesi.
Per quanto riguarda i giacimenti in mare, il piano regolatore dovrà integrarsi con l’intera pianificazione marina imposta dalla Ue, pianificazione della strategia marina che l’Italia avrebbe dovuto consegnare all’Europa in marzo. Come da prassi, l’Italia non ha ancora mandato a Bruxelles il documento di pianificazione generale delle attività marine.
La strategia marina europea chiede che vengano messi a sistema i diversi usi del mare (come il prelievo di animali con la pesca, l’allevamento di specie marine, la navigazione e i trasporti, il turismo, l’estrazione di risorse petrolifere e minerarie come il sale, il diporto e altre attività) insieme con la sua tutela e con la difesa della biodiversità.

Il Referendum

Viene alla mente, a questo punto, il dibattito sul cosiddetto «referendum anti-trivelle» del 17 aprile 2016 ebbe significati politici e simbolici andando al di là della stessa questione (tutto sommato limitata) oggetto del quesito referendario. Nel confronto tra le ragioni del sì e quelle del no, o dell’astensione, si è spesso preso di mira non le tesi, ma i loro sostenitori.
Il testo del quesito referendario era infatti: «Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208, “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?».
Nello specifico si chiedeva di cancellare la norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo.
Nonostante, infatti, le società petrolifere non possano più richiedere per il futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, le ricerche e le attività petrolifere già in corso non avrebbero più scadenza certa. Il quesito referendario, quindi, non riguardava le trivellazioni sulla terraferma, né quelle in mare che si trovano a una distanza superiore alle 12 miglia dalla costa, né nuove concessioni entro le 12 miglia marine, vietate dalle norme introdotte nella legge di stabilità 2016.
I sostenitori del «sì» hanno attirato l’attenzione sul bassissimo impatto che le estrazioni hanno sul totale del bisogno energetico italiano, a fronte di rischi e disastri ambientali. Allo stesso tempo hanno l’accento su possibili fuoruscite di petrolio in fase di estrazione e il conseguente inquinamento del mare. Inoltre hanno affermato che attività del genere danneggino la pesca, il comparto agroalimentare e il turismo, tutte industrie con un’incidenza sul Pil di molto maggiore rispetto all’attività estrattiva (circa il 10% sul totale), molto più radicate sul territorio, con un impatto ambientale minimo, e che impiega molte più persone di quelle che lavorerebbero per una piattaforma petrolifera.
Chi è stato per il «sì», inoltre, ha spinto per una più rapida svolta verso le energie rinnovabili, che avrebbero potuto riassorbire le persone impiegate nel settore degli idrocarburi, oltre a creare molti più posti di lavoro, far uscire l’Italia dalla dipendenza energetica e abbattere le emissioni di CO2 come da accordi internazionali. Infine, dato che le estrazioni sono portate avanti da compagnie private, le materie prime estratte sono rivendute all’Italia, non concesse gratuitamente, quindi si è ben lontani dall’indipendenza energetica che uno sfruttamento delle fonti rinnovabili, invece, garantirebbe.
Altro punto su cui hanno puntato i sostenitori del «sì» è stato l’utilizzo della pratica dell’Airgun per scandagliare i fondali alla ricerca di giacimenti, per localizzarli e capirne l’entità. Questa pratica consiste nello sparare una bolla di aria compressa in acqua e registrarne l’onda d’urto di ritorno per capire la natura del fondale. Questa bolla d’aria genera un rumore fino a 260 dB, che può provocare lesioni anche permanenti negli organismi marini e confondere i cetacei che perdono il senso dell’orientamento. Questo ha un impatto maggiore sul Mar Mediterraneo, un mare chiuso con un ecosistema particolarmente delicato.
I sostenitori del «no» hanno paragonato la questione delle trivelle ai referendum sul nucleare, quando l’Italia votò no, per poi essere costretta a comprare energia dalla Francia, che ha centrali a pochi chilometri dal confine, e, pertanto, non saremmo al sicuro da un possibile incidente solo perché non ci sono centrali nel nostro territorio.

I contrasti

Per quanto riguarda l’impatto su altri tipi di economia e dell’indotto che l’attività di estrazione può portare, i sostenitori del «no» invitavano a notare come le coste della Romagna siano sempre affollate di turisti, e a come sia cresciuto il turismo in Abruzzo. Inoltre, concedendo queste attività, le amministrazioni pubbliche riceverebbero royalty, compagnie estere non sarebbero ulteriormente scoraggiate dall’investire in Italia e, infine, anche le università italiane riceverebbero investimenti per sviluppare ricerca e nuove tecnologie, anche nel campo delle energie rinnovabili, in attesa che i tempi siano maturi per la loro applicazione.
Veniva meno, per i sostenitori del «no», anche il punto secondo il quale le piattaforme petrolifere siano visivamente impattanti, dato che pale eoliche o interi campi di pannelli fotovoltaici non sono meno antiestetici.
Altri punti a sostegno del «no» riguardavano le importazioni di petrolio dall’estero: nonostante la produzione interna sia scarsa, è stata abbastanza per ridurre il numero di petroliere nei maggiori porti italiani. Le stesse petroliere, è fatto noto, sono spesso al centro di disastri ambientali.
Ultimo punto sul quale si sono concentrati i sostenitori del «no» è legato all’occupazione e all’indotto dato dall’attività estrattiva, un settore di eccellenza e di altissima specializzazione tecnologica.
I partiti italiani hanno preso posizioni diverse sul referendum: la maggior parte dei partiti di opposizione hanno sostenuto il «sì», cioè hanno chiesto che gli impianti di estrazione già presenti entro le 12 miglia dalle coste dovevano concludere le trivellazioni una volta scadute le licenze e non ad esaurimento del giacimento. A favore del «sì» ci sono partiti diversissimi tra loro, che vanno dalla sinistra ecologista all’estrema destra, da Grillo e Salvini, un elemento che ha portato i critici del referendum a sostenere che il vero obiettivo della consultazione sia più politico e anti-governativo che ambientale: anche perché le nuove trivellazioni entro le 12 miglia sono già vietate, l’energia che verrebbe meno andrebbe comprata dall’estero e l’Italia sulle energie rinnovabili è messa molto meglio di molti altri paesi europei.
Forza Italia non ha preso una posizione ufficiale, ma i rappresentanti del partito in Puglia, Abruzzo ed Emilia Romagna hanno sostenuto il «sì».

Basta carbone

Ricordare la data del 17 aprile 2016, quando circa 16milioni di italiani votarono per il referendum sulle «trivelle» (i «sì» rappresentarono quasi l’86% dei voti validi), vuol dire: basta investire su petrolio, gas e carbone.
Quello di cui abbiamo bisogno è una rapida e giusta transizione energetica basata sulle rinnovabili, che porterebbe benefici al clima, all’ambiente e all’economia, con la creazione di migliaia di nuovi posti di lavoro. Il governo sia coerente e rispetti gli impegni (presi sia con l’Ue che con le italiane e gli italiani) per una transizione energetica che contrasti la crisi climatica in corso e dia impulso alle fonti pulite e all’efficienza energetica. Incentivando, al contempo, pratiche e stili di vita davvero sostenibili, dalle attività agricole alla mobilità, per ridurre rapidamente gli impatti dei vari settori produttivi.
A differenza di quanto dichiarato da chi sostiene che continuare a sfruttare gli idrocarburi presenti in Italia possa giovare a una sorta di «indipendenza» energetica, è infatti assodato che le riserve nazionali non possono minimamente condurci a questo traguardo. È piuttosto il momento di puntare su una vera rivoluzione energetica.

La Puglia attende con ansia il verdetto Ue

Cresce, infatti, l’attesa per il verdetto Ue sulle trivelle al largo delle coste pugliesi. In particolare, i giudici europei dovranno stabilire se una sola società petrolifera ha diritto di presentare più permessi per cercare idrocarburi, anche se contigui, uno accanto all’altro.
La questione parte da quattro richieste di ricerca di idrocarburi nel tratto di mare che va da Bari a Brindisi, per un totale di 3.000 chilometri quadrati.
A fine giugno l’avvocato generale della Corte Ue, Gerard Hogan, aveva espresso un parere non vincolante sulla questione, affermando che il diritto Ue non impedisce ad uno stato membro di rilasciare più permessi contigui ad uno stesso operatore.
Dall’esito di questa vicenda, infatti, potrebbe dipendere il futuro della Regione, in quanto le acque al largo delle coste pugliesi potrebbero ben presto riempirsi di piattaforme offshore con risultati devastanti per l’ecosistema marino.
In totale ci sono ben 53 richieste di permessi e prospezioni per la ricerca di petrolio e gas al largo delle coste pugliesi: da Polignano a Mare a Brindisi ma anche nel mar Ionio davanti a Taranto.
La Puglia ha una forte opinione pubblica schierata sulle posizioni «No Triv»: nel referendum del 2016 il no alle trivellazioni ottenne nelle sei province un vero plebiscito, anche per il sostegno quasi unanime dei partiti territoriali, schierati in difesa delle bellezze del paesaggio marino.
Se davvero vogliamo abbattere le emissioni di gas serra, occorre fermare le nuove trivellazioni e smetterla di dire che il gas fossile è amico del clima perché è falso. Non abbiamo tempo da perdere con il «greenwashing», la strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo. Occorre che nell’Adriatico, e in nessun mare, ci sia più posto per le trivelle.
Da decenni l’Adriatico è uno dei mari che più soffre per una serie di attività pericolose, a cui oggi si aggiungono gli impatti dei cambiamenti climatici. Nel rapporto «Bombardamento a tappeto», Greenpeace dimostra che, anche limitandosi a considerare una dozzina di specie ittiche di importanza commerciale (rispetto alle decine pescate in Adriatico), i suoi fondali sono preziosi per la pesca. Per la sua conformazione particolare, l’Adriatico è probabilmente il mare più pescoso del Mediterraneo: il settore della pesca vale circa 300 milioni di euro l’anno e offre lavoro a circa 10mila persone. Senza contare altri settori come l’acquacoltura e la mitilicoltura, non meno importanti.

 

Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia

Se ti è piaciuto questo articolo abbonati a Villaggio Globale. Al prezzo di 25,00 € all’anno avrai accesso illimitato agli articoli pubblicati sul sito di Vglobale.it e ci aiuterai a crescere e a mantenere la nostra informazione libera e indipendente