Tutela dell’ambiente, clima e diritti delle donne

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Il cambiamento climatico è una crisi dei diritti umani

La parità di genere sia un obiettivo strettamente collegato all’idea di «sviluppo sostenibile», non solo per il rapporto di dominio e sfruttamento sulla natura, che ha provocato i noti cambiamenti climatici ma anche per l’accentuarsi dei conflitti e delle guerre dovute alle enormi disuguaglianze economiche, per i flussi migratori determinati dall’impoverimento naturale di interi territori del pianeta, per un modello economico e uno stile di vita incompatibile con la salute, con lo sviluppo demografico, con il rispetto dell’ambiente, con il patto tra generazioni

Parlare di diritti umani e ambiente assume oggi, a mio avviso, una rilevante importanza per l’attuale attenzione alla salvaguardia del nostro habitat, alla ricerca di un ambiente sicuro, equilibrato, in grado di assicurare qualità di vita e benessere per tutti e tutte; in altre parole, quelle condizioni fondamentali per una vita sana e dignitosa.
È proprio nella dignità di tutti gli esseri umani che dovrebbe concentrarsi il maggiore sforzo possibile per fornire una protezione ecologica che si oppone ai costanti danni alla natura, alle pratiche abusive che, per esempio, provocano l’inquinamento (dall’aria, acqua, suono e visione ecc.), accelerano i processi di desertificazione, riducono le risorse naturali e generano il cambiamento climatico responsabile di milioni di vittime dei danni ambientali.
Sappiamo noi tutti che l’uomo è, al tempo stesso, creatura e artefice del suo ambiente; questo gli assicura la sussistenza fisica e gli offre la possibilità di uno sviluppo intellettuale, morale, sociale e spirituale.
L’elemento naturale e quello da lui stesso creato, sono essenziali al suo benessere e al pieno godimento dei suoi fondamentali diritti.
È evidente che la sistematica aggressione all’ambiente e le sue conseguenze nei confronti della qualità della vita e del benessere delle persone di oggi e di domani evidenziano la stretta relazione esistente tra diritti umani e ambiente.
Negli ultimi anni l’attenzione pubblica si è concentrata sul problema della tutela dell’ambiente, soprattutto alla luce delle evidenti catastrofi ecologiche causate dall’uomo. I pericoli sono numerosi e l’umanità ha iniziato a intravedere i possibili effetti della continua mancanza di rispetto e di attenzione nei confronti del pianeta in cui viviamo.
Le conseguenze dovute all’inquinamento, ai cambiamenti climatici e allo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali sono terribilmente visibili.
Necessita, pertanto, un’opera di cooperazione e coordinazione delle azioni a livello nazionale, regionale ed internazionale tale da arginarne gli effetti.
La mancata tutela dell’ambiente influisce, peraltro, sulla possibilità di garantire un adeguato dibattito sia sulle tematiche ambientali sia su quello dei diritti umani.
La tutela dell’ambiente viene, infatti, collegata a numerosi diritti umani, tra cui il diritto alla vita, il diritto alla salute, il diritto all’acqua, il diritto al cibo, il diritto alla vita familiare, il diritto all’informazione, il diritto all’abitazione, il diritto a un adeguato standard di vita, nonché ai diritti cosiddetti culturali relativamente ai popoli indigeni.
L’estrema sintesi di un rapporto di Amnesty International del 7 giugno 2021 è che le relazioni esistenti tra cambiamento climatico e godimento dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali delle generazioni presenti e future è sempre più stringente.
Il cambiamento climatico è una crisi dei diritti umani senza precedenti: attualmente i gruppi più colpiti dalla crisi climatica sono le donne, i popoli indigeni, le persone con disabilità, i migranti e i rifugiati. Fasce della popolazione che, però, non devono essere viste solo come «vittime» ma come agenti chiave del cambiamento e «leader a livello locale, nazionale e internazionale».

La Costituzione e la tutela dell’ambiente

Il 9 giugno 2021 il Senato ha approvato il Disegno di Legge Costituzionale n. 83 recante modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione, al fine di giungere a una riforma costituzionale che introduca la tutela dell’ambiente come principio fondamentale della Repubblica.
La formulazione originaria dell’art. 9 Cost., al secondo comma afferma che la Repubblica «Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», non menzionando esplicitamente il bene giuridico dell’ambiente, argomento ormai al centro del dibattito geo-politico in osservanza dell’«Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile» promossa dall’Onu.
La proposta di riforma definisce ambiente ed ecosistemi come diritti fondamentali della persona e della comunità, imponendo altresì alla Repubblica di operare nella direzione del miglioramento delle condizioni ambientali in generale, proteggendo la biodiversità e promuovendo il rispetto degli animali. Inoltre, le summenzionate tutele si fonderebbero sul principio di precauzione, prevenendo l’insorgere di anomalie nei cicli produttivi e minimizzando il rischio d’inquinamento.
L’art. 41 Cost., così come arrivato ai giorni nostri, liberalizza l’iniziativa economica privata, purché non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», rinviando alla legge l’indirizzo di tale iniziativa ai fini sociali. La novella allargherebbe questi ultimi fini a quelli ambientali e sanitari, affermando che non possa esservi alcuna iniziativa in concorso di un danno nei confronti di questi due beni giuridici.
Qualora la riforma costituzionale dovesse venire alla luce, sarebbe comunque la legge ordinaria (specie in sede amministrativa) a stabilire le regole del gioco in materia ambientale, definendo i limiti d’inquinamento dell’iniziativa economica e anche le norme di funzionamento per garantire ambiente, salute ed ecosistemi. Invero, la costituzionalizzazione dell’ambiente si risolverebbe in una mera dichiarazione di principio.

Le donne sono determinanti

Per uno sviluppo equilibrato le donne e le politiche per le donne sono determinanti: nelle scelte alimentari e nell’educazione ad una corretta alimentazione, nella riduzione e nella gestione dei rifiuti domestici, nella pianificazione o mancata pianificazione delle nascite, e nella gestione delle risorse economiche.
Un processo di sostenibilità ambientale non può prescindere da concrete iniziative politiche volte a rimuovere le gravissimi discriminazioni economiche, giuridiche, sociali e culturali che ancora sussistono tra «generi e generazioni».
Nella strategia complessiva assumono una portata incisiva e prevalente la difesa dei diritti fondamentali della persona, la lotta alla violenza nei confronti delle donne, l’istruzione, la salute e l’eliminazione delle discriminazioni di genere.
È di certo una situazione che risulta aggravata dalla crisi finanziaria e dalle politiche di austerity: queste determinano interventi massicci con riforme istituzionali, tagli allo stato sociale, ai servizi sanitari e assistenziali nel settore pubblico.
La rivoluzione demografica e i flussi migratori in atto comporteranno, inoltre, un ulteriore aggravamento della posizione delle donne tenute in primis a compensare, soprattutto in ambito familiare, il venir meno dei servizi assistenziali e sanitari del settore pubblico.
L’esperienza maturata nel tempo in Italia dimostra che le leggi devono essere monitorate e che è necessario verificarne lo stato di attuazione, oltre che l’adeguatezza degli stanziamenti.
La recente delega alle Pari Opportunità assegnata alla Ministra per le riforme e i rapporti con il Parlamento dovrebbe porre fine a un periodo di criticità, che inficia molte delle politiche attive e delle energie presenti sul campo. L’Agenda 2030, di conseguenza, rappresenta un’opportunità reale per modelli economici, ambientali e sociali che non lascino «nessuno e nessuna indietro». E come tale non può essere tralasciata, né dalle Istituzioni né dalla società civile.

Molti proclami e pochi fatti

Si parla tanto di parità di genere e ruolo delle donne: tanto è stato fatto, almeno in superficie, al punto da sembrare quasi superfluo ribadire il concetto che le donne abbiano pari diritti e pari opportunità degli uomini. Eppure dalle cronache quotidiane sappiamo che ai progressi culturali non sono seguiti i fatti, se ancora sono tanti i femminicidi, se la disparità di reddito nelle stesse posizione lavorative è ancora grande, se i ruoli apicali o manageriali sono di fatto riservati agli uomini, se la povertà è più forte tra le persone anziane di sesso femminile che di quello maschile. Per il prossimo futuro, il raggiungimento effettivo della parità di genere è l’obiettivo strategico e cruciale per il conseguimento di tutti gli altri.
Già nel secolo scorso pensatrici e filosofe si sono battute per l’uguaglianza di genere: una presenza femminile che sia responsabile e decisionale, effettiva e indipendente, rispettata ed accolta, può essere la strada per un nuovo sguardo sul mondo, sulla natura, sull’economia, sulla società, sulla vita, capace di correggere molte di quelle storture, create da uno sguardo solo maschile sul mondo, e quindi parziale, che hanno portato ad un progresso accelerato ma umanamente insostenibile.
Occorre anche coltivare e sviluppare identità e soggettività al femminile. I valori di cui le donne sono portatrici non sono sufficientemente riconosciuti e apprezzati, anche dalle stesse donne. Però sono valori di cui il mondo oggi ha urgente bisogno, visto che l’attuale modello di sviluppo ha decretato universalmente il suo fallimento, mostrandosi insostenibile per il genere umano.
Tutto ciò ci aiuta a comprendere più a fondo perché la parità di genere sia un obiettivo strettamente collegato all’idea di «sviluppo sostenibile», non solo per il rapporto di dominio e sfruttamento sulla natura, che ha provocato i noti cambiamenti climatici ma anche per l’accentuarsi dei conflitti e delle guerre dovute alle enormi disuguaglianze economiche, per i flussi migratori determinati dall’impoverimento naturale di interi territori del pianeta, per un modello economico e uno stile di vita incompatibile con la salute, con lo sviluppo demografico, con il rispetto dell’ambiente, con il patto tra generazioni.
Spesso a livello mediatico la lotta alla violenza sulle donne, la possibilità per le donne di raggiungere posizioni apicali nel mondo lavorativo e nella politica, viene riguardata quasi fosse un problema solo delle donne, un diritto liberale ed individuale da conseguire per la loro realizzazione.
Si esalta la questione della parità di genere contando i numeri sempre crescenti delle donne nel mondo del lavoro, nei ruoli di spicco, nell’imprenditoria e nella ricerca: ma è sufficiente la corsa alla crescita dei numeri delle donne in posizioni di spicco?
Se le donne occupate nella professione o nel mondo del lavoro, o in politica hanno quasi raggiunto ovunque il numero degli uomini, la qualità della loro partecipazione resta spesso sostanzialmente diversa. Non solo quando permane una significativa differenza retributiva a pari livello formativo e di posizione, oppure per il fatto che la durata della carriera di una donna può seguire un trend discendente dopo la soglia dei 50 anni. Ma anche nella più rosea situazione, in cui la donna raggiunga la posizione apicale, resta pur sempre un gap di qualità: la percezione culturale della presenza attiva delle donne nei luoghi dove si assumo decisioni non è ancora sentita infatti come una necessità per il bene comune.
In Italia, l’arrivo di una donna al vertice di un’istituzione è salutato con favore dall’opinione pubblica, quasi a dire «ce l’ha fatta», ma la circostanza non viene quasi mai presentata come un reale vantaggio per l’interesse pubblico. La sensazione è che ci senta appagati dai numeri crescenti come ad aver fatto bene un esercizio, ma senza aver capito il bisogno profondo dello sguardo delle donne nell’economia, nella società, nella politica.
Pensando allo «sviluppo sostenibile», si dovrebbe invece iniziare a comprendere che non è questione di «fare un favore alle donne», ma di riconoscere che se il progresso è diventato insostenibile è proprio perché era costruito da uno sguardo dimezzato (e quindi falsato) sulla vita e sul pianeta.
Possiamo, oggi, constatare che il progresso tecnologico ed industriale degli ultimi due secoli è stato improntato sul predominio maschile, sul linguaggio maschile di interpretazione del mondo. Le scoperte, le conquiste legate alla tecnologia, il continuo superamento di limiti e sfide, hanno portato un grande benessere economico, ma anche forti disuguaglianze. La competitività come strumento di miglioramento, ha portato crescita per alcuni ma ha provocato anche tensioni e conflitti.
La presenza delle donne non è un obiettivo numerico, un traguardo liberale, ma l’indispensabile presupposto per perseguire gli altri obiettivi di bene comune: clima e cura del pianeta, lotta alla povertà, pace e giustizia, tutela dei minori e delle persone fragili, comunità e città sostenibili, consumo responsabile.
Non è più in gioco solo una questione di diritti di una parte del genere umano, ma di responsabilità da condividere insieme per un futuro migliore.

Siamo ancora una società patriarcale

«Viviamo ancora in una società patriarcale che obbliga le donne a obbedire alle regole e le vittime della violenza di genere a non chiedere un aiuto», così un’infermiera irachena, ha descritto la condizione femminile nel suo paese.
La violenza contro donne e bambine ancora oggi resta il principale ostacolo alla realizzazione dell’emancipazione femminile in Medio Oriente e Nord Africa. Una situazione particolarmente complessa, soprattutto in paesi distrutti da conflitti atroci ancora in corso o appena conclusi, dove spesso sono le donne le prime vittime di crisi umanitarie drammatiche.
La violenza di genere e sessuale in tali contesti non viola soltanto i diritti delle donne, ma limita il progresso di tutti verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Incide negativamente sull’istruzione, la salute e la partecipazione delle donne alla vita pubblica, con conseguenze negative anche sulla stabilità sociale ed economica. Nonostante vi siano stati progressi considerevoli verso la parità di genere negli ultimi vent’anni, nella maggior parte di questi paesi le sfide sono ancora tante.
La guerra contro i Talebani è stata generalmente considerata giusta. Ma per Gino Strada il nocciolo della questione non stava nello schierarsi per o contro la «cultura» talebana: il nocciolo stava nel comprendere se la guerra fosse lo strumento adatto oppure no.
Gino Strada (come abbiamo letto anche in questi giorni) ha sempre sostenuto che la guerra in Afghanistan fosse una guerra di aggressione. Su questa idea tutti erano contrari, anche a sinistra.
Oggi dovrebbe apparire chiaro a tutti che la guerra (qualunque tipo di intervento internazionale) è uno strumento obsoleto, che non funziona se mai ha funzionato. La guerra, diceva Strada, è «carne strappata e fatta a pezzi». Nel suo stile duro e severo spiegava che la guerra non serve, fallisce anche nell’obiettivo che si dà.
È la verità che i tanti fautori degli interventi internazionali degli ultimi vent’anni devono accettare: la guerra non serve perché non risolve nulla e peggiora la situazione. Quindi ragionate, direbbe Gino Strada, e fatevene una ragione: nessun presunto diritto, nessuna offesa, nessun contenzioso internazionale e nemmeno nessuna differenza di civiltà si può risolvere con la guerra.
Ora tutti lo osannano e lo commemorano sui media ma Gino Strada è stato un protagonista scomodo.
Diciamo la verità: era difficile andare d’accordo con lui per le sue posizioni intransigenti sulla guerra, sulla sanità pubblica e sulla cooperazione internazionale. Quando gli chiesero di fare il commissario straordinario della sanità in Calabria espresse la sua idea chiara e netta: la sanità o è pubblica o non è. Rapidamente l’offerta fu ritirata. Gino Strada era convinto che il welfare e la salute fossero patrimonio di tutti e quindi un diritto inalienabile e gratuito per tutti: nessuna commistione con il privato (obbligatoriamente costretto a guardare ai ricavi) poteva inserirsi in tale equazione.
Sono pochi in Italia coloro che sostengono tali tesi ispirate dalle idee sessantottine ma anche dalla dottrina sociale della Chiesa che oggi papa Francesco esalta al suo massimo grado.
In Afghanistan siamo tornati al punto di partenza, con Al Qaeda certamente sconfitta ma con i fondamentalisti del Corano che sono tornati a guidare il paese, pronti a martoriarlo con la sharia e quindi a ingabbiare di nuovo le donne nel burka, privandole di ogni diritto civile e rendendole oggetto carnale a disposizione degli uomini.
Tuttavia quando qualcuno dice che l’intervento in Afghanistan è stato un errore strategico, pur avendo mille ragioni per sostenerlo, sorvola sul fatto che in questo arco di tempo, grazie a quell’intervento militare, due generazioni di donne afghane hanno provato la gioia di emanciparsi, hanno potuto studiare, hanno assaporato la possibilità di una vita dignitosa senza essere stuprate, mercificate e uccise dalla metà patriarcale della popolazione.
Ci sono state bambine che in questi vent’anni di presenza internazionale a Kabul, a Herat, a Kandahar sono diventate donne e fino al ritorno dei Talebani hanno vissuto da donne libere. Ci sono state ragazzine che grazie all’intervento militare hanno cominciato e poi completato gli studi, fino a laurearsi, e hanno vissuto vent’anni da esseri umani e non da oggetto senza valore, da forzare al matrimonio, da inchiavardare dentro un burka e da stuprare a piacimento.
Non posso non ricordare, a questo punto, le perdite di vite umane – cinquantaquattro morti e circa settecento feriti – subite in 20 anni di missioni in Afghanistan da parte dell’esercito italiano. Lo ha ricordato il premier Mario Draghi, in un’intervista al Tg1 sulla situazione nel Paese, dopo il ritorno al potere dei talebani.
«Alle loro famiglie – ha detto il premier – voglio dire che il loro sacrificio non è stato vano, hanno difeso i valori per cui erano stati inviati, le libertà fondamentali e i diritti delle donne, hanno fatto operazioni per prevenire il terrorismo, hanno fatto del bene».
«Per me e per tutti gli italiani, e lo dico alle loro famiglie, loro sono eroi», ha aggiunto Draghi.

 

Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia

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