Quanto ci costa la perdita di bodiversità

565
Tempo di lettura: 3 minuti

Il capitale naturale (il nostro ecosistema, la biodiversità e le risorse naturali) sono alla base delle economie, dei sistemi sociali e del benessere. I benefici sono tuttavia, spesso trascurati o mal compresi

Teeb è uno studio sull’economia degli ecosistemi e della biodiversità lanciato dalla Germania e dalla Commissione europea in risposta a una proposta da parte della G8 + 5 (vertice dei ministri dell’Ambiente tenutosi a Potsdam in Germania nel 2007) al fine di sviluppare uno studio globale sui costi della perdita di biodiversità.

Questo studio è seguito guidato da Pavan Sukhdev, gode del supportato dell’Unep e del contributo finanziario della Commissione europea, della Germania, del Regno Unito e più di recente anche del finanziamento della Norvegia, dei Paesi Bassi e della Svezia.

Teeb riunisce l’esperienza e la conoscenza di esperti da tutto il mondo nei settori della scienza, dell’economia e della politica. Si propone come un valido aiuto per i decisori politici che intendono affrontare concretamente il problema dei crescenti impatti che determinano una perdita di biodiversità e di valore degli ecosistemi.

Il capitale naturale (il nostro ecosistema, la biodiversità e le risorse naturali) sono alla base delle economie, dei sistemi sociali e del benessere. I benefici sono innumerevoli, tuttavia, spesso trascurati o mal compresi; questi infatti non sono presi in considerazione dal mercato e neppure nelle scelte quotidiane effettuate dalle imprese e dai cittadini.

La continua perdita di foreste, di suolo, di zone umide e di barriere coralline è strettamente legata a questa invisibilità economica. Lo sono anche le perdite delle specie e delle attività produttive come la pesca, che si regge in parte ignorando il valore della biodiversità e basandosi quasi esclusivamente su interessi immediati e privatistici.

Stiamo andando velocemente verso la riduzione del capitale naturale senza neppure renderci conto di cosa stiamo perdendo e del suo reale valore. Perdere l’opportunità di investire nel capitale naturale contribuisce alla perdita di biodiversità che diviene sempre più evidente e pressante giorno dopo giorno. I poveri delle aree rurali, per la maggior parte dipendenti dalle risorse naturali, sono spesso i più colpiti.

Partendo da questa analisi, è evidente che sono necessarie forti politiche pubbliche. Le soluzioni politiche devono essere tagliate su misura in modo da essere sostenibili socialmente, ambientalmente efficaci ed economicamente efficienti. Uno dei messaggi chiave ripetuti nel rapporto è rappresentato dall’inestricabile relazione esistente tra povertà e perdita di ecosistemi e biodiversità.

La scala delle perdite in corso è imponente; per esempio, la perdita dell’ecosistema delle foreste tropicali da sola rappresenta circa un quinto delle emissioni di gas serra, contribuendo in modo significativo al cambiamento climatico. La perdita di altri elementi dell’ecosistema comporta impatti diretti sul cibo, sull’acqua, sulla sicurezza energetica.

Lo studio dimostra come comprendere e fare proprio il valore dell’ecosistema comporta una migliore informazione: è necessario utilizzare sistematicamente indicatori scientifici per misurare gli impatti sugli ecosistemi, e per indicare possibili segnali di un loro «collasso».

Inoltre si evidenza la necessità di sviluppare approcci macroeconomici tenendo conto nei sistemi di misurazione nella ricchezza delle nazioni anche del capitale naturale, in modo da monitorare ed evidenziare il suo deprezzarsi o la sua crescita.

Il rapporto auspica quindi la promozione di politiche che incentivino azioni a favore dell’ambiente come, ad esempio, la certificazione verde sugli appalti pubblici o norme che favoriscano l’uso di «etichette verdi» sui prodotti di consumo per rendere più ecologiche le catene di approvvigionamento. Occorre al contempo eliminare le sovvenzioni attualmente erogate (stimate in mille miliardi di dollari a livello mondiale), per attività non compatibili con l’ambiente nell’ambito dell’agricoltura, della pesca, della produzione energetica e dei trasporti: un terzo di esse sono sussidi a sostegno della produzione e del consumo di combustibili fossili.

Ancora si propongono regolamentazioni quadro che stabiliscono standard ambientali e regimi di responsabilità, che si ritengono ancora più efficaci se legati alla fissazione dei prezzi ed a meccanismi di risarcimento, sulla base del principio «chi inquina paga».

Inoltre è necessario aggiungere valore al capitale naturale attraverso la protezione ed il potenziamento delle aree protette, che attualmente coprono il 13,9% della superficie terrestre, il 5,9% delle acque territoriali e solo lo 0,5% del mare aperto. Un altro terreno su cui misurarsi è quello degli investimenti nelle infrastrutture ecologiche: possono essere attuate azioni efficaci ad esempio per ridurre i rischio di pericoli naturali (inondazioni, frane, ecc). Investimenti nella manutenzione e nella conservazione sono quasi sempre più convenienti, ed i benefici sociali sono decisamente superiori, rispetto al ripristino dei danni derivanti dalle calamità «naturali» e degli ecosistemi danneggiati.

Più in generale il rapporto si conclude indicando la strada da percorrere nei prossimi decenni: modificare le nostre economie, fondandole su di un basso utilizzo di carbonio, attraverso un uso efficiente delle risorse, salvaguardando la biodiversità e gli ecosistemi.

Una economia ecologicamente efficiente richiede la cooperazione internazionale, d’altra parte ogni paese è diverso e sarà necessario adeguare le sue risposte al contesto nazionale, ma tutti hanno da guadagnare dalla condivisione di idee, esperienze e capacità.

(Fonte Arpat, Testo a cura di Stefania Calleri)