Gargano, un parco rimasto senza amici

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Il territorio non ha bisogno di regolamenti di gestione ma di competenze. La biodiversità di specie e ancor più di habitat, è riconosciuta dall’Unione europea

Il Parco del Gargano non ha amici e se li ha mai avuti sono stati veramente pochi. Pure su Facebook mi sembra di capire che non si contano più di 40 amici. Un parco senza amici che lo sostengono, difendono rischia di «chiudere».

Un evidente entusiasmo iniziale vi è senza dubbio stato, ma sempre però con occhi increduli e soprattutto con un po’ di rabbia. Fu il clima questo di un convegno studi organizzato nel 1991 insieme all’amico Filippo Fiorentino, nell’Aula Magna dell’Istituto di cui era allora Preside (Itc di Rodi Garganico); volevamo intanto celebrare il grande evento, almeno per noi, uno sparuto gruppo di amici garganici del Parco, cioè l’approvazione da parte della Camera dei deputati della Legge quadro sui parchi che l’Italia attendeva da quarant’anni e che istituiva il Parco Nazionale del Gargano.

C’erano Gianluigi Ceruti, primo firmatario della Legge, Sabino Acquaviva che aveva speso molto del suo tempo per il Gargano, Angelini, sottosegretario del ministero dell’Ambiente, il prof. Franco Pedrotti, allora Presidente della Società Botanica Italiana. «Finalmente il Gargano con il Parco avrà l’occasione per valorizzare le sue risorse, agricole, culturali, naturalistiche, paesaggistiche». Queste le attese soprattutto per tanti intellettuali extragarganici (es. Antonio Cederna), la comunità scientifica internazionale, per i pochi amici garganici, che credevano al Parco come occasione di uno sviluppo, allora non era stato ancora coniato il termine sostenibile, sulle sue risorse. A settembre dello stesso anno il Senato della Repubblica licenzia la legge quadro che sarà conosciuta come la 394, il Gargano è Parco Nazionale.

Entusiasmo sempre più labile, impercettibile, soprattutto perché cominciano a sedimentarsi e a moltiplicarsi i luoghi comuni di sempre: «il Parco è caduto dall’alto, il Gargano è dei garganici». Poi più niente! Qualcosa di forte si respira nell’autunno del 1991 quando ci troviamo veramente in tanti, a Valle Carbonara, per celebrare il «primo ettaro» del Parco, circa un ettaro di prato, che qualcuno aveva voluto donare al parco. Una vera giornata di festa, bambini che correvano, adulti sdraiati sul prato, insomma cittadini con una evidente gioia sui loro volti; allora non si vedevano «ambientalisti».

Molti di noi hanno imparato ad amare il Gargano dagli «altri», docenti universitari, i tanti turisti che hanno amato questa terra che quasi ci invidiavano le nostre origini: i miei primi maestri di piante sono stati sconosciuti tedeschi che incontravo lungo la strada da Umbra a Monte S. Angelo. Con il Parco appena istituito molti di noi si sono sentiti un po’ fieri di appartenergli, e anche di essere ritornati.

C’era la legge ma il Parco bisognava farlo, grande impresa, senza amici. Erano anni in cui i parchi, il tema della protezione della natura trovavano grandi interessi e sostegno nella società civile e più in generale nell’opinione pubblica; sensibilità non mancavano nelle stesse istituzioni e anche nelle forze politiche, ma nel Gargano è silenzio, fino a quando non vengono emanate nel giro di ventiquattro ore (il 27 dicembre 1992), le misure di salvaguardia nelle more dell’insediamento dell’Ente di Gestione, così come imponeva la Legge quadro. Con l’emanazione del decreto, a firma del frettoloso Carlo Ripa di Meana, il Parco è solo, i pochi amici non bastano più. D’altronde, come potevano crescere gli amici «se non si potevano raccogliere più i funghi; non si potevano più potare gli alberi, bruciare le frasche», e così via dicendo. Paesi isolati da barricate, secolari faggi tagliati in Foresta Umbra, attentanti, giorni, settimane di buio nel Gargano. Non se n’è parlato mai! Forse per vergogna o forse per paura. Poi qualche anno dopo la pace, raggiunta in un Convegno (ottobre 1994), organizzato con Menuccia Fontana, Alfio Nicotra, Orazio La Marca, con un titolo ambizioso, «Gargano parco. La direzione di uno sviluppo possibile». C’erano tutti: il mondo accademico (Facoltà di Agraria di Foggia, Facoltà di Economia di Bari, Facoltà di Scienze Forestali di Firenze), le istituzioni, le nuove associazioni; si parla del ruolo dei processi agricoli tradizionali, zootecnia, boschi, turismo naturalistico, beni culturali. Si parla delle potenzialità del Parco per il Gargano, in fondo, e della sua specificità: «una nuova utilizzazione della ricchezza potenziale del Gargano, questo lo scopo del Parco…, una utilizzazione… che si basi proprio sulle specifiche caratteristiche del Gargano, di ciò che è unico, tipico, esclusivo…; il Parco del Gargano deve vitalizzarle… e proporsi l’obiettivo di conservarle e assicurare il loro godimento da parte della collettività».

È il manifesto del Convegno che adotta i principi dell’idea/progetto di Parco del Gargano (1963) a firma di illuminati urbanisti (Insolera, Alfani, Ventura, Villani), cioè di un Parco che deve assicurare «il godimento da parte della collettività». Ma come in ogni parco anche nel Gargano rimane pura questione di Natura da conservare che ovviamente contrasta con i bisogni dell’uomo. Eppure, contrariamente ad altri parchi qui non vi sono uccellini, lupi, orsi da salvare. Chi crede al parco è necessariamente un ambientalista o un amante della Natura e nutre un sentimento avverso all’uomo. Pertanto non trova amici, non sei credibile se pensi che il Gargano possa avere con il Parco un progetto, che i garganici possano costruirsi il loro futuro. Sei un sognatore! Anche la Comunità Montana (mia tesi di laurea) nasce con questo elementare, ovvio obiettivo, infatti «è stata soppressa».

Con il passare degli anni il parco inizia a rendersi «visibile», o almeno lo percepiscono in primo luogo le scuole, che si rivelano i veri amici del Parco. In prima linea scuole elementari soprattutto, ma anche medie e superiori che investono tutto il loro entusiasmo e la loro creatività: una infinità di progetti didattici, iniziative di sensibilizzazione, corsi di aggiornamento docenti (chi scrive ne ha condotto circa una ventina dal 1995 al 2001); non vi è scuola dal Gargano a Foggia che non metta in cantiere un progetto per il Parco, le sue risorse, la sua flora, la sua fauna, il paesaggio. La scuola si rivela sin da subito il grande alleato del parco e la sua più importante risorsa culturale, un ruolo che evidentemente non è stato sfruttato e valorizzato abbastanza. Dalla società civile, la scuola è unica, ma con un’azione capillare, sistematica sul territorio che informa, celebra, sottolinea i valori del Parco, rivoluziona la sua tradizionale didattica; si vedono alunni visitare la Dolina Pozzatina, la Faggeta di Ischitella, le Lagune di Lesina e Varano. Con il parco i nostri alunni hanno cominciato per la prima volta a conoscere il loro territorio, hanno imparato di ecologia, orchidee, Campanula garganica, Capriolo garganico, ecosistemi, lagune, aironi, galline prataiole, paesaggio, carsismo, vegetazione, boschi, sorgenti; con il parco i nostri alunni hanno imparato di Agrumi del Gargano, di Caciovallo podolico, di Anguille di Lesina.

Poi nella stessa scuola che aveva colorato aule, corridoi, di disegni, foto, poster del loro parco, un evidente silenzio; è la scuola la prima e vera delusa di questo Parco; qualcuno aveva provato a scrivere «Parco del Gargano» sulle loro bottiglie di olio, qualche altro su jep e rang rover, ma il parco non si racconta e nessuno ha più voglia di raccontarlo; gli alunni di oggi non sentono più parlare di parco anche perché bisogna pur farlo vedere il disegno di questo parco; non si può parlare loro di Parco senza un piano del Parco dove si dice che cosa si vuole far, cosa dovrà significare oggi proteggere la natura, e soprattutto qual è la Natura del Gargano, e come la stessa possa essere di «godimento da parte della collettività». Nel Piano del Parco «approvato», si è letto nei giornali pochi giorni fa, non troveremo risposte adeguate in questo senso. Probabilmente perché non vi è stata la consapevolezza della specificità del Gargano, quella specificità per la quale si è prodotta tanta letteratura, non «uccellini e piante da salvare», ma quella che percepisce anche l’occhio più distratto: uliveti tra boschi di cerro e leccio e pino d’Aleppo, valloni con agrumi e olmi di montagna a livello del mare, castelli, torri e aree archeologiche con Campanula garganica e Micromeria fruticosa, resti di vigne con vitigni storici, vecchi alberi che continuano a produrre quarantatré tipi di pere diverse, d’incolti ricchi di tantissime specie di erbe spontanee da mangiare. La natura del Gargano è la sua biodiversità, ricchissima, ancora tutta da conoscere prima di essere gestita da un Piano del Parco che tra l’altro «parlava» pochissimo di botanica, un aspetto, invece, sicuramente forte e caratterizzante il Gargano.

Questa biodiversità di specie e ancor più di habitat, c’è riconosciuta dall’Unione europea, un riconoscimento che qualifica ulteriormente il parco: non vi è un angolo del Gargano che non sia interessato a un Sic o a una Zps, ma vanno studiati, monitorati, per capire come la biodiversità si esprime a livello di specie, comunità, paesaggio, per conoscere stati di fatto e dinamiche che ne determinano i loro valori o possano compromettere la loro integrità. Il piano del Parco è già «vecchio» in questo senso. Poco confortante si rivela la stessa Regione Puglia che si limita a emanare regolamenti di gestione senza avere la minima idea di come sono fatti, di quali sono cioè gli habitat che li caratterizzano: «come si può gestire qualcosa che non si conosce? Di quanto siano da conoscere ci vuole poco a comprenderlo: nel Sic Foresta Umbra, ad esempio abbiamo rilevato almeno tre habitat che non sono per nulla considerati nel Formulario (poster presentato Congresso Sbi di Palermo) della Direttiva Habitat di cui si parla poco in Italia e affatto nel Gargano. I diversi siti comunitari non recintano «Natura», ma uliveti, prati, boschi, coltivi, insomma cose dell’uomo. E il recinto non ha nessuna pretesa di «musealizzare», ma vi è la consapevolezza che quella «Natura» si conserva mantenendo i processi o le attività umane che l’hanno determinata.

Un prato si conserva se vi è ancora una mucca che vi ci pascola, che bruca l’erba e ne favorisce la rinnovazione altrimenti il prato torna a essere bosco (rinaturazione) e la biodiversità si riduce, trasgredendo così un impegno nei confronti dell’Unione europea che invece ci assegna contributi, incentivi se si approntano piani di gestione (a livello di Regione/Ministero un progetto che ricade in un Sic/Zps ed è conforme agli obiettivi della conservazione gode di premialità).

Il Piano del Parco del Gargano deve porsi pertanto l’obiettivo di governare la rinaturazione, un’importante dinamica cui è esposta una parte considerevole del territorio (abbandono di prati-pascoli, seminativi) mettendo in conto il recupero dei processi agricoli tradizionali, quali ad esempio gli allevamenti, avviando così concrete azioni di sostegno per «prodotti tipici» che animano banali sagre senza che nessuno si preoccupi di come fare perche i nostri contadini continuino a produrli. Questa storia nel Gargano si racconta da sé, e la scuola riserva ancora grandi capacità di ascolto; per quanto possibile continuo a raccontarla ai diversi studenti, liceali, i tanti universitari (Ancona, Bologna, Foggia, Torino, Firenze, Parma) che scelgono questo promontorio per le loro tesi e per i loro campi studi. Un parco è fatto culturale, e quale miglior alleato se non la scuola? Ma non deludiamola per una seconda volta.