Gli ambientalisti francesi sul piede di guerra per la nuova fonte energetica fossile che le compagnie petrolifere vogliono estrarre anche dai giacimenti europei dopo il grande boom estrattivo degli Usa. Ma in Europa la situazione è diversa
Nel settore energetico si sta diffondendo un nuovo modo di produrre energia, ma al largo pubblico non è ancora stata resa nota la portata della situazione, tranne che nel solo settore energetico professionale.
Si tratta dello «shale gas», il gas delle argille scistose, gas (in prevalenza metano) che si trova compresso nelle rocce sedimentarie argillose (scisti bituminosi) ad almeno un chilometro di profondità, che si sono stratificate in milioni di anni in aree dove un tempo c’erano bacini marini o lacustri.
Viene considerato un gas non convenzionale proprio perché intrappolato in rocce profonde e poco permeabili. «Non convenzionali» proprio perché le rocce devono essere frantumate per poter estrarre il gas.
Le grandi aziende mondiali del settore stanno già investendo in questa nuova risorsa energetica perché a oggi la considerano come il «nuovo prodotto» che rivoluzionerà il settore energetico («nuovo» nel metodo di estrazione, ma come prodotto è noto da sempre…).
Anche l’Eni e le altre compagnie energetiche italiane stanno già investendo nei giacimenti scistosi della Polonia. L’Eni ha acquistato già tre licenze di estrazione da un’azienda polacca, la Minsk Energy Resources, per operare già nel 2011 in un’area del bacino baltico estesa per ben 2mila km2, e ha investito anche nei giacimenti americani per acquisire le competenze necessarie da sfruttare in futuro.
In questi giorni da alcuni siti francesi si è appreso che la Francia ha dato l’autorizzazione all’azienda texana Schuepbach Energy di esplorare più di 4mila m2 in un’area situata nell’altopiano calcareo del Larzac, in Dordogna nella regione dell’Aquitania nel sud della Francia. Si pensa che questo sia uno dei giacimenti di shale gas più grandi in Europa.
La Francia, che mira ad una indipendenza energetica, vede di buon grado queste trivellazioni esplorative, e conseguentemente gli ambientalisti francesi sono già sul piede di guerra, dato che la suddetta zona è particolarmente importante per il paesaggio selvaggio ricco di boschi, per le pregiate falde acquifere e per l’allevamento delle pecore il cui latte viene utilizzato per la produzione di uno dei formaggi più famosi di Francia, il Roquefort. Uno degli ambientalisti promotori di questa protesta, Josè Bovè, annuncia «i texani dovranno passare sui nostri corpi prima di trivellare nel Larzac».
Lo shale gas
Lo shale gas è stato definito dal Wall Street Journal come l’oro nero del futuro. E lo è già per la realtà energetica degli Stati Uniti, che ha trovato in questo gas un ottimo aiuto per superare la crisi economica, quando nel 2008 alla borsa del gas americana le quotazioni del gas metano salirono di ben quattro volte rispetto al 2000.
Questo tipo di gas era già noto agli americani dal 1821 ma poco sfruttato proprio per la mancanza di un metodo efficace ed economico di estrazione. Solo piccole imprese si erano cimentate nell’estrazione utilizzando pozzi verticali, ma essendosi rivelati molto dispendiosi vennero dissuasi dal rendere questo idrocarburo una delle fonti principali di energia. Ma negli ultimi anni gli studi per migliorare le tecnologie di estrazione hanno portato all’attuale metodo dell’hydraulic fracturing, a oggi unico metodo utilizzato per portare in superficie questo gas.
In generale, gli idrocarburi si generano nelle rocce argillose ricche di elementi organici, e poi, quando e se la situazione geologica lo consente, migrano lentamente verso rocce sabbiose o calcaree, da dove vengono poi estratti con le tecniche convenzionali. Invece, lo shale gas è quel gas che per ragioni geologiche è ancora rimasto imprigionato nella cosiddetta «roccia sorgente» argillosa, e nel corso dei milioni di anni non è ancora «migrato» nella roccia giacimento. Quindi con questa nuova tecnica, si va ad estrarre il gas prima che migri verso rocce più permeabili, cioè non si aspettano i milioni di anni necessari alla natura per effettuare questo processo.
L’estrazione
Il metodo di estrazione, definito anche «fracking» consiste nel pompare ad altissima pressione acqua e additivi chimici con la sabbia o materiali simili, per poter fratturare la roccia, liberarne il gas e permettere la risalita del gas in superficie.
L’acqua è il fluido che viene immesso con grande forza nel pozzo creando la frattura della roccia, che si riempie di sabbia che va a sostituirsi in parte al gas, e gli additivi chimici vanno invece a modificare la viscosità dei fluidi del giacimento.
Quindi l’estrazione avviene in due fasi: prima viene perforato un pozzo verticale fino a trovare lo strato giusto e poi si perfora in orizzontale lungo lo strato; poi per rompere la roccia e poter estrarre il gas si applica il metodo dell’hydraulic fracturing.
Oggi gli Usa, grazie a questo metodo, sono i maggiori produttori al mondo di questa fonte di energia e secondo l’Eia (Energy Information Administration, l’agenzia americana dell’energia) gli Stati Uniti ne possiedono ben 132 miliardi di m3 nel sottosuolo di 48 Stati americani anche se quattro sono i giacimenti più grossi (il Barnett in Texas, l’Haynesville in Luosiana-Texas, il Fayetteville in Arkansas e il Macellus principalmente in Pennsylvania), e al 2010 sono stati censiti già 6.200 pozzi, con un utilizzo del 15% del gas presente sul territorio. L’Eia stima che nel 2035 il 45% del fabbisogno degli Usa verrà soddisfatto da questo gas. In Europa invece si stimano circa 15,5 miliardi di m3 diriserve di shale gas, la Cina ne stima 100 miliardi, l’Oceania 74 miliardi, in Medio Oriente e Nord Africa 72.
L’impatto ambientale
Ora però ci si inizia a chiedere quale impatto ambientale possa avere questo tipo di estrazione, che per anni era stato scartato proprio perché impossibile da estrarre con le tecniche conosciute. Infatti il governatore di New York, David Paterson, ha da poco imposto una moratoria di sei mesi sulle esplorazioni per consentire le opportune verifiche sullo stato delle falde acquifere, che si pensa che subiscano gravi danni in seguito al fracking.
Anche un gruppo di ricercatori della Cornell University, dopo una ricerca, hanno affermato che durante le operazioni di estrazione ci sono fughe del gas metano, un gas serra 72 volte più potente dell’anidride carbonica e quindi peggiore delle emissioni create dal consumo di petrolio o carbone.
Oltre a compromettere la stabilità dell’assetto idrogeologico che, appunto, porterebbe ad un inquinamento delle falde acquifere, e ad una provata perdita di metano durante le operazioni di estrazione, un altro problema evidente è la consistente quantità di acqua, circa 2000 m3, utilizzata ad ogni fracking (e a volte sono necessari più operazioni di questo tipo!), che risale successivamente in superficie col gas inquinata dagli additivi chimici utilizzati, contaminando così suoli e falde. Ad ogni fine estrazione sarebbe d’obbligo bonificare il sito.
Anche l’Epa (l’Agenzia per la sicurezza ambientale americana) ha affermato che questa tecnica di estrazione può inquinare le falde acquifere, e per questo ha messo sotto controllo le attività della Exxon Mobil.
«Gasland», il documentario
Quest’anno in occasione del festival del cinema di Roma è stato presentato, fuori concorso, il documentario «Gasland» di Josh Fox, nel quale il regista denuncia, tramite un documentario di 107 minuti e girato in un anno e mezzo tra «Texas e Colorado, Utah e Wyoming, con una telecamera e una serie di recipienti per raccogliere l’acqua. Le falde acquifere, infatti, sono talmente inquinate che chi avvicina un accendino all’acqua che scorre dal rubinetto di casa, nei pressi delle stazioni di perforazione, vede il liquido infiammarsi quasi fosse alcool puro…» (tratto dalla recensione su MYmovies). Il documentario raccoglie testimonianze, immagini, e mette in evidenza i danni che le infiltrazioni dei gas nelle falde, dovute all’estrazione tramite fracking, hanno provocato alle popolazioni americane.
Infatti la mancanza di una severa normativa ambientale e tecnica da parte del governo americano verso le compagnie petrolifere porta a scelte sbagliate, e l’attuale legislazione americana consente oltre che di sfruttare il territorio anche di utilizzare qualsiasi tipo di additivo chimico senza dover comunicare nulla al governo (come invece è richiesto dalle norme ambientali in Italia).
Le prospettive future delle compagnie petrolifere
Le prospettive delle compagnie petrolifere sono di estendere questo tipo di investimento anche e soprattutto in Europa, Cina e India, e forse anche in Sud America. E i Paesi ospitanti sperano che si possa ripetere il boom economico dello shale gas verificatosi in Nord America.
Il grosso potenziale di questo gas fa sperare i Paesi del vecchio continente, soprattutto Cina e India che vedrebbero così scemare la loro dipendenza da fonti estere. Ma anche i Paesi europei vedono questo nuovo mercato energetico come una possibilità per allentare la dipendenza dal gas russo.
La situazione in Europa
I giacimenti in Europa di shale gas sono finora stati localizzati in Polonia, Germania, Ungheria, ma anche Francia, Inghilterra, Svezia, Ucraina, Romania, Austria.
La multinazionale texana del petrolio, la Halliburton, ha effettuato il suo primo dell’hydraulic fracturing europeo in un pozzo in Polonia, mentre altre compagnie come Chevron, Exxon e Shell stanno investendo già in Inghilterra, Svezia e Germania. Le prossime candidate alle trivellazioni esplorative sono Olanda, Spagna e Danimarca.
Da studi geologici recenti però è stato evidenziato che il gas delle argille scistose europeo sia più difficile da estrarre e quindi più costoso di quello americano. In più la legislazione europea in ambito ambientale e tecnica è molto più severa di quella americana.
Altro ostacolo alla realizzazione di questi pozzi è la mancanza di ampi spazi, come in Usa. Gli spazi sono importanti per poter effettuare la trivellazione di più pozzi, che servono per stimolare la fuoruscita del gas. E di conseguenza anche la densità della popolazione diventa un fattore fortemente limitante.
Tutto questo implica un maggior impatto ambientale che può, come nel caso dell’altopiano del Larzac in Francia, danneggiare il paesaggio e l’importanza ambientale del territorio, e non solo, se si considerano i possibili rischi di inquinamento sopra citati.
Anche i costi diventano importanti in quanto in Europa il costo per la messa in produzione di un pozzo convenzionale è già più alto che negli Stati Uniti, per i pozzi «non convenzionali» sarebbe ancora più elevato. Per consentire a questa nuova fonte energetica di prender piede in Europa si dovrebbero abbattere i costi di estrazione e limitare l’impatto ambientale.
Vale veramente la pena mettere a rischio gli ecosistemi europei per favorire uno sviluppo di un idrocarburo i cui effetti negativi sono già noti e soprattutto dopo aver avviato politiche ambientali puntate verso le energie pulite?
Tutto il mondo ormai si sta attrezzando per permettere uno sviluppo concreto delle energie alternative e creare così una riconversione totale verso questo tipo di energie. Perché i grandi del mondo vogliono ancora una volta investire in una nuova energia fossile?… Sempre troppe domande sempre senza risposta…
(L’immagine nel titolo è stata presa dal sito geology.com)