La logica dello sviluppo e quella della crescita, un difficile equilibrio per un pianeta sempre più in bilico> I danni del non intervento
Il Protocollo di Kyoto c’è chi lo odia, c’è chi lo ama. E questo indipendentemente dalla congiuntura economica, anzi indipendentemente dal fatto che anche l’ambiente è economia, perché anche i disastri provocati dai cambiamenti climatici hanno un costo economico.
Succede così che in momenti di congiuntura economica favorevole alle imprese ci sia sempre tra politici e decisori chi propone di «mitigare» gli obiettivi del Protocollo per l’abbattimento delle emissioni inquinanti di CO2 per non limitare l’espansione delle imprese e penalizzare i lavoratori.
Parimenti in una fase congiunturale economica sfavorevole, come quella che stiamo vivendo, c’è chi fa sentire la sua voce contro limiti troppo «limitanti».
Il ministro dell’Ambiente italiano, Stefania Prestigiacomo, ad esempio non si è fatta sfuggire l’occasione della Conferenza Onu sui cambiamenti climatici appena conclusa in Polonia per riprendere la questione già avanzata qualche settimana fa per sottolineare come «l’impegno dell’Europa per la riduzione delle emissioni e la protezione del clima non deve avere effetti negativi sulla competitività della nostra economia soprattutto tenendo conto della crisi finanziaria globale, e deve essere in grado di convincere i grandi paesi inquinatori (a cominciare da Usa, Cina, India, Australia) ad assumere impegni analoghi».
«E l’Italia non è l’unica a pensarla così» ha concluso con aria sibillina.
La stessa cosa ha fatto un altro ministro, quello per le Politiche europee, Andrea Ronchi (che nei giorni scorsi aveva già effettuato un tour europeo in vista del Consiglio europeo), che ha ribadito che il pacchetto clima varato dalla Commissione Ue costerà all’industria italiana «180 miliardi di euro, quasi 25 miliardi l’anno», ricordando che l’Italia ha chiesto alla presidenza francese della Ue «più tempo e maggiore flessibilità» per arrivare alla riduzione delle emissioni inquinanti del 20 per cento entro il 2020, obiettivo comunque «da mantenere perché fondamentale alla tutela dell’ambiente». Oggi, precisa il Ministro, «con la crisi planetaria che ha cambiato il volto della finanza mondiale, non dobbiamo ulteriormente affossare le nostre imprese dei settori cardine».
Gli stessi «timori» sono stati ribaditi dal ministro degli Affari Esteri, Franco Frattini, che ha confermato quindi la linea del governo.
Ci risiamo dunque. Chi decide preferisce pensare all’oggi economico, piuttosto che al domani ambientale, mettendo avanti presunte emergenze finanziarie a certe emergenze climatiche che non coinvolgono solo la tasca di alcuni, ma la vita di tutti.
Nuovi modelli previsionali avvertono che il livello dei mari si sta alzando più velocemente del previsto, se non si interviene chi pagherà le economie che ne risulteranno devastate?
Ma a questo schieramento di ministri poco lungimiranti ha risposto José Manuel Durão Barroso: «Nessuna flessibilità per gli obiettivi, ma solo per centrare gli obiettivi», ha detto il presidente della commissione Ue, per il quale sarebbe «un vero errore mondiale se la crisi finanziaria facesse dimenticare la sfida del cambiamento climatico».
(R. V. G.)
(14 Ottobre 2008)