Nimby, un fenomeno che si allarga

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È l’acronimo di «Not In My Back Yard» che significa: non nel mio cortile, una reazione popolare che ha ormai assunto dimensioni planetarie. In ogni paese aumentano in modo esponenziale le contestazioni contro ogni tipo di impianto, compresi quelli «verdi» per la produzione di energia pulita

Anche in Italia, secondo il rapporto presentato da Aris lo scorso mese a Roma, durante la sesta edizione del Nimby Forum, emerge un’opinione pubblica contraria a qualsiasi installazione ed impianto, a prescindere dalle valutazioni di rischio e di impatto ambientale.

Il recente disastro nucleare avvenuto in Giappone ha riportato al centro dell’attenzione mondiale il dato che i rischi per l’ambiente e per la salute umana derivati dagli impianti nucleari non possono essere affidati alle sole scelte locali, anche perché gli effetti sono globali. Il disastro di Fukushima ha indotto molti paesi, in particolare europei, a rivedere i propri programmi nucleari in modo tempestivo, prima ancora che si strutturassero movimenti di protesta civile nei vari paesi.

Occorre dunque distinguere tra sindrome, derivata da timori irrazionali, e danno esistenziale o ambientale reale per le comunità che ospitano gli impianti di interesse pubblico. I confini sono incerti, se spesso protestano anche le comunità che hanno deliberato per l’installazione degli impianti e che hanno ricevuto indennizzi a compensazione dell’uso del territorio e dei disagi.

Secondo la letteratura di settore, la strada della compensazione del danno sociale subìto dalla comunità locale e degli indennizzi economici o in natura si è dimostrata nei fatti la strada più efficace per rimuovere il fenomeno del Nimby, a patto però che le analisi costi/benefici tradizionali (Acb) includano anche la valutazione del costo sociale.

Importanti anche la condivisione, la trasparenza delle scelte e la comunicazione intesa come processo ampio e dialettico, che vada oltre la diffusione di informazioni e contempli la partecipazione attiva e l’ascolto delle istanze dei vari soggetti coinvolti.

In questo contesto il ruolo dei soggetti terzi, come Arpat, diventa rilevante, sia per mettere a disposizione dei decisori il patrimonio di dati, sia per verificare e monitorare le realizzazioni, sempre nell’ottica della tutela della salute dei cittadini e dell’ambiente.


In certi contesti e situazioni l’effetto penalizzante delle opere pubbliche è un fatto e la protesta non può essere semplicemente ricondotta ad una sindrome. In questi casi adeguate politiche di compensazione del danno e una comunicazione costruttiva tra comunità locale e autorità centrale possono essere determinanti per far rimanere il confronto nell’ambito della razionalità e dell’equità. La compensazione del danno sociale subìto dalla comunità locale e gli indennizzi economici o in natura si sono dimostrati nei fatti la strada più efficace per rimuovere il fenomeno del Nimby, a patto però che includano anche la valutazione del costo sociale.

Nelle ACB di tipo tradizionale la valutazione del costo sociale è basata quasi sempre sull’interpretazione soggettiva del tecnico che la realizza o su una valutazione dei danni non puntuale, dato che il costo sociale non ha un prezzo di mercato e non può essere facilmente quantificato. Si può valutare un danno di minima importanza, se lo si fa in ottica ipotetica e generale, ma la sua valutazione sarà del tutto diversa per chi lo vive realmente e in prima persona. Per questo la concertazione del costo sociale e la sua inclusione tra i costi tecnici di realizzazione di un’opera sono indispensabili per prevenire i conflitti.

Il fenomeno Nimby, pur avendo origine dal livello locale, ha ormai assunto una dimensione globale. In Italia è nato con i movimenti antinucleari per poi estendersi ad altre iniziative contro l’inquinamento atmosferico, gli insediamenti produttivi ad alto rischio ambientale, le grandi infrastrutture di mobilità, i nuovi impianti per lo smaltimento dei rifiuti (soprattutto negli ultimi anni) ed oggi anche sugli impianti per la produzione di energia «verde».

Le contestazioni paralizzano le decisioni politiche, ma non sembrano efficaci per contrastare cattivi progetti, né per realizzarne di migliori. Né si è dimostrato vincente il cosiddetto «gioco alla Hobbes», cioè l’imposizione delle scelte di localizzazione delle opere di interesse nazionale. Numerosi studi sul tema dicono che le scelte imposte in nome dell’interesse collettivo portano solo ad ulteriori degenerazioni del fenomeno, sintetizzabili nel «muro contro muro», o conflitto a somma zero, nel quale non vince nessuno dei due contendenti e perde la collettività.

Inoltre, tali decisioni sono prese solitamente a maggioranza in Parlamento e questo confligge con i principi della democrazia matura, in particolare con il rispetto dei cosiddetti statuti delle minoranze e con i principi di rappresentanza che legittimano le istituzioni locali, a loro volta maggioranza nei loro contesti.

Per questo la soluzione dei conflitti, anche in questo campo, può essere affidata alla mediazione e alla negoziazione tra l’interesse generale della nazione, che dovrebbe prevalere su ogni particolarismo o localismo, e le istanze diffuse. Una mediazione sempre più difficile soprattutto negli ultimi anni, nei quali si registra una crescita del fenomeno del Nimby quasi parallela all’importanza crescente dei vari contesti territoriali dove il federalismo è diventato oggetto del dibattito giuridico-istituzionale.

In molti contesti il Nimby è stato dipinto in chiave negativa, come una sorta di egoismo localista contro l’interesse generale. In realtà con il crescere delle contestazioni il quadro si è fatto più complesso ed è anche la classe politica, che vive di consensi, che tende a congelare le scelte facendo prevalere l’immobilismo o penalizzando le comunità meno organizzate.

Un ruolo chiave, anche in questo campo, potrebbe giocarlo la comunicazione. Spesso i progetti partono in sordina, suscitando sospetti nella popolazione e le informazioni arrivano in modo parziale e discontinuo, solo per arginare le reazioni. Una volta innescato questo meccanismo, anche gli aspetti compensatori proposti a posteriori sono vissuti con maggiore diffidenza.

Il mancato utilizzo di canali di comunicazione diretti e di linguaggi comuni, la scarsa propensione ad ascoltare le opinioni degli altri, l’insufficiente o incompleta conoscenza generale e specifica dei soggetti coinvolti nella realizzazione di un progetto, l’utilizzo distorto delle informazioni, non fanno altro che aumentare la diffidenza e il conflitto, rendendo sempre più difficile un dialogo costruttivo e partecipativo tra i diversi interessi in gioco.

Il conflitto tra interessi diversi può infatti essere superato con l’informazione puntale, la trasparenza, la partecipazione e la completezza delle informazioni in ogni fase dei processi in modo che i cittadini abbiano a disposizione gli stessi strumenti di valutazione del policy maker.

Secondo alcuni studi è soprattutto la carenza di informazione ai cittadini la causa principale delle opposizioni ad un progetto: se i rapporti con questi ultimi fossero impostati in maniera più aperta, anche in accordo con la legge 2001/42/CE, che invita gli amministratori a consultarli e informarli preventivamente nel caso di interventi a grande impatto ambientale, probabilmente molte contestazioni verrebbero mitigate.

In questa prospettiva diventa essenziale il ruolo dei soggetti terzi che garantiscano le informazioni, la disponibilità dei dati, i monitoraggi e i controlli: questo è il ruolo della moderna Pubblica amministrazione, e quindi anche di Arpat, per quanto di sua competenza, che deve mettere a disposizione il grande patrimonio informativo di cui dispone prima per orientare le scelte politiche e poi per verificare e monitorare la validità delle scelte tecniche, sempre tenendo fisso gli obiettivi della tutela della salute dei cittadini e dell’ambiente, sempre prioritari rispetto a qualsiasi altro obiettivo locale o nazionale.

(Fonte Arpat, Testo di a cura di Debora Badii)