Ora l’imperativo si chiama «transizione»

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Siamo nel pieno di una crisi finanziaria globale e, per il ruolo assunto dalla finanza nelle nostre società, i problemi che ne sono derivati, coinvolgono non solo gli equilibri fra i diversi sistemi economici nazionali, ma anche la qualità della vita umana e, quindi, i livelli di esercizio delle azioni politiche, delle attività culturali, delle responsabilità etiche.

Sono problemi che incidono fortemente su quelle nostre esperienze quotidiane, di gestione di problemi concreti, sui quali costruiamo, poi, le visioni della realtà e il senso del nostro vivere. È avvenuto, cioè, che sono stati sconvolti, in particolare nei paesi occidentali, quei progetti di vita che tutti erano stati invitati a coltivare sull’onda delle attese di un progresso umano che la crescita economica avrebbe dovuto realizzare. Ora viene a mancare anche la crescita economica, mentre la popolazione mondiale, pur in forme diverse, era ancora in paziente attesa di qualche segnale di progresso umano.

La percezione di questa situazione è, oggi, quella del fallimento globale di un sogno. Appunto, un sogno che veniva venduto e viene ancora venduto, non per rispondere (come siamo stati indotti ad immaginare) ai bisogni e alle attese umane più profonde, ma per azionare un meccanismo di consumi, non governato e senza un fine. Un meccanismo, di fatto, affidato, poi, anche a chi, motivato da pulsioni istintive, voglia sfruttare situazioni solo per produrre profitti e per rendere sempre più favorevole il continuare a produrli in quantità sempre maggiori, senza sentire la necessità di trovare un senso e una condivisione consapevole, nel contesto nel quale questi stessi profitti vengono realizzati. Senza farsi troppe domande, sul non senso di questo cieco meccanismo che insegue un successo fine a se stesso, il sogno ha avuto solo modo di sopravvivere in un mondo che, intanto, ha consumato energie e continua a pretendere poteri assoluti nelle mani dei pochi vincenti in una gara mai concordata e tantomeno decisa, ma semplicemente imposta.

Siamo in un sistema «sociale» consacrato al mercato libero (inteso come privo di regole concordate) che si preoccupa, sostanzialmente, di mantenere in vita una massa critica di consumatori. Un sistema che promuove strutture e infrastrutture regolate dall’equità illusoria delle opportunità offerte dall’assolutismo di principi liberisti-libertari. Un sistema che, monopolizzando e deviando il significato dei concetti e dei luoghi di libertà, non fa i conti con la realtà e non assume le responsabilità delle inaccettabili conseguenze delle incoerenze incomponibili e dell’ineluttabilità delle sue infinite eccezioni che, in realtà, sono la sua vera regola. Un sistema che, invece, si impone socialmente facendo leva su un consenso acritico indotto da suggestioni e cieca fede nelle ideologie, fonti di mistificanti ma seducenti chiarezze e semplicità.

Viviamo oggi consumando, con prepotenza e senza vantaggi per la qualità della nostra vita, sia risorse materiali (che cedono energia al costo di una loro «morte» entropica, che non ammette risvegli), sia quelle immateriali della creatività e dell’ingegno umano. Tutte risorse che vorremmo, invece, fossero impiegate per realizzare progetti di relazioni, vitali e virtuose, e per trovare in esse quel senso di realizzazione del «sé» che muove e dà direzione alle nostre capacità, individuali e collettive, di comprendere il mondo e di costruire i modi di essere presenti nel suo divenire.

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