La Cina vuole affermare la sua leadership mondiale. Sembra finito il ruolo guida negoziale dell’Europa
Mentre sono sotto gli occhi di tutti le variazioni climatiche di una meteorologia impazzita, le agenzie battono con enfasi la notizia che «anche la Cina ha firmato l’accordo di Copenhagen».
Ma quale accordo? Perché l’informazione continua a fare disinformazione in campo ambientale?
Noi lo avevamo definito un accordo di carta, perché in realtà era solo una presa d’atto ma non poneva limiti di emissioni, né date, né impegni per i paesi industrializzati.
Per capire meglio che cosa sia questa «risposta» della Cina ne parliamo con Vincenzo Ferrara dell’Enea. «Copenhagen si è conclusa con un nulla di fatto, ma è stato “preso atto” di un accordo che era stato messo a punto in pratica da Usa e Cina con il contributo degli altri paesi Basic (Brasile, India, Sud Africa) e con un “no comment” della Ue, nel senso che la Ue lo ha accettato “obtorto collo”».
Siccome questo accordo non è stato adottato dall’assemblea della Unfccc e non è quindi né ufficiale né operativo, era necessario che fosse nel frattempo sottoscritto (insieme ad una lista di impegni volontari) dai paesi della Unfccc. La data di scadenza era il 31 gennaio scorso, ma è stata data una proroga. Al 31 gennaio avevano dato il loro consenso (con sottoscrizione) oltre 50 Paesi in via di sviluppo e industrializzati tra cui l’Europa, ma anche la Cina e l’India.
«Ora la Cina – ci dice – ha inviato una lettera nella quale chiede di essere esplicitamente menzionata nella parte introduttiva del testo dell’Accordo di Copenhagen come paese che ha prodotto quel documento. La stessa cosa ha fatto l’India. Quindi non c’è alcun sì della Cina perché l’accordo di Copenhagen è stato scritto dalla Cina e dagli Usa ed è già stato sottoscritto anche ufficialmente entro la data dal 31 gennaio».
La notizia, quindi, è che la Cina chiede visibilità nello stesso Accordo di Copenhagen (che lei stessa ha scritto ma su cui non compare). «Tuttavia la richiesta della Cina è stata formalmente effettuata, ma a tre condizioni:
– che l’accordo sia politico e continui a rimanere politico anche dopo l’ufficializzazione come documento decisionale della Unfccc;
– che questo accordo politico non è legalmente vincolante, né tanto meno deve diventare legalmente vincolante;
– che deve essere usato come punto di partenza per portare a conclusione e all’approvazione i due trattati già messi a punto (trattato Agw-Kp per il protocollo di Kyoto emendato e reso valido fino al 2020, e Trattato Agw-Lca, costruito sulla «road map di Bali» per gli obiettivi di lungo periodo)».
In pratica, ci dice Ferrara, «con quest’ultima precisazione, la Cina sottolinea che l’Accordo di Copenhagen è politico, e non è l’inizio di un “terzo” trattato che annulla le bozze dei due precedenti già messi a punto. Inoltre la Cina insiste sulle sue precedenti posizioni. Le bozze dei due trattati vanno portate a termine ed approvate, smentendo quindi l’Europa e gli Usa che vogliono un solo trattato (quello Agw-Lca, comprensivo eventualmente anche degli elementi Agw-Kp), sia la Aosis (stati delle piccole isole) e paesi Ldc (paesi più poveri) che invece volevano un solo protocollo (quello Agw-Kp, comprensivo eventualmente degli elementi Agw-Lca)».
La Cina, sta quindi puntando più che mai i piedi per affermare la sua leadership mondiale. E lo può fare perché è la più grande economia emergente (il debito americano è in mano alla Cina) e sta condizionando l’economia mondiale e quella dell’Europa.
Sembra finito, in altre parole, il ruolo guida negoziale e di attuazione degli impegni sul clima, che l’Europa aveva nel passato ed ha mantenuto fino a qualche anno fa.