Combattere la desertificazione si può

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– Nel Sahara algerino rinascono 80 oasi

Oggi si celebra la 16ma giornata mondiale per la lotta alla desertificazione, indetta ogni anno dalle Nazioni Unite. Una giornata dedicata alle sempre più forti problematiche legate alla siccità e ai popoli che subiscono tale calamità.

Quest’anno, «Anno internazionale della Biodiversità», la Unccd (United Nations Convention to Combat Desertification), la convenzione dell’Onu contro la desertificazione, punta a sensibilizzare la gente sul fatto che desertificazione, degrado del suolo e siccità condizionano drammaticamente la biodiversità del suolo evidenziando la stretta relazione che c’è tra benessere dell’ecosistema e terreni ricchi di biodiversità, perché un suolo sano, la possibilità di produrre la vita e la salute della terra dipendono molto da come gli individui utilizzano la loro terra.

La desertificazione, secondo i dati dell’Unccd, minaccia un quarto delle terre del pianeta e oltre 1 miliardo di abitanti in 100 Paesi. La situazione più drammatica resta quella africana, dov’è a rischio il 73% delle terre aride coltivate.

A maggio è nato l’Itki (International Traditional Knowledge Institute), un organismo internazionale voluto dall’Unesco per tutelare le tecniche e le conoscenze tradizionali dell’agricoltura e dell’architettura, per non dimenticarle e per ricominciare ad usarle per un risparmio economico considerevole in tutti i settori e in particolare nelle emissioni di CO2. Lo scopo dell’Itki è quello di realizzare una «Banca dati della Terra» in cui classificare 700 grandi famiglie di tecniche «salva-ambiente» utilizzate dagli avi e sopravvissute allo scorrere del tempo; soluzioni antiche ma attuali ai problemi della desertificazione, della mancanza d’acqua, delle frane e dello spreco di energia. Questi dati verranno messi a disposizione di tutte le pubbliche amministrazioni del mondo, dai governi ai cittadini, tramite un report annuale disponibile on-line. Così potranno esser diffuse delle pratiche sostenibili ed innovative in agricoltura, architettura e aree urbane – paesaggistiche e pratiche sociali.

La settimana scorsa, durante il Festival dell’ambiente, tenutosi a Milano, è intervenuto il dott. Venanzio Vallerani su «Recuperare le terre degradate», un agronomo specializzato in ambienti tropicali, esperto nel settore della lotta alla desertificazione e contro i cambiamenti climatici, inventore dell’omonimo Sistema basato sulla tecnica del water harvesting.

Il «Sistema Vallerani», si basa sulla progettazione, da parte dello stesso Vallerani, di due aratri speciali («il delfino» e «il treno») per facilitare e velocizzare la creazione di una buca (semiluna nel caso del «delfino» e solco diviso per il «treno») per proteggere la piantina e agevolare la raccolta e la concentrazione delle poche risorse ancora disponibili, quali acque meteoriche (un’ansa può contenere fino ad un metro cubo d’acqua), terra fina superficiale e sostanza organica lasciata in superficie dal bestiame). Così facendo si è reso possibile il rinverdimento di molte zone aride.

Il Sistema fu pensato nel 1987 quando Vallerani fu incaricato dalla Fao di collaborare alla formulazione di progetti per il miglioramento della produzione zootecnica in Niger e in Burkina Faso e di dirigerne uno a Capo Verde. Qui soprattutto, osservando la difficoltà e la lentezza dei lavori di preparazione dei terreni, si rese conto di quali fossero le vere necessità per le popolazioni locali, e con un piccone provò a scavare dei solchi per piantare alberi. Si rese conto delle difficoltà dell’operazione a causa della durezza del terreno e «all’impossibilità della sola forza fisica dell’uomo di sconfiggere il problema», così pensò ad una meccanizzazione del lavoro e alla creazione del cosiddetto Sistema Vallerani, «un sistema che potesse far lavorare per me la natura»:

–         per creare buche più profonde e permettere alle radici di crescere in profondità ed evitare l’essiccamento,

–         per non sprecare la poca acqua tipica delle regioni desertiche che viene così raccolta nelle semilune o nei solchi evitando lo scorrimento, e

–         per velocizzare l’operazione e consentire di seminare una maggiore quantità di terreno.

Infatti, con l’uso di questi aratri, trainati da trattori, si riescono a creare 13 buche al minuto (a mano si impiegava un solo giorno per una buca!), di fare 2 ettari di rimboschimento all’ora (circa 500 ettari in 18 giorni).

Con la meccanizzazione del processo di «raccolta delle acque» si è riusciti ad adempiere alle Tre convenzioni delle Nazioni Unite: lotta alla desertificazione, mantenimento della biodiversità e lotta ai cambiamenti climatici.

Il Sistema è stato applicato ai terreni nudi, abbandonati, compatti, dotati anticamente di una copertura forestale, generalmente non coltivati dai contadini perché difficili da lavorare con gli attrezzi a loro disposizione, ma adatti ad esser lavorati con i due tipi di aratro «delfino» e «treno». Da questo deriva l’aumento di superficie produttiva e una produzione agricola e silvo-pastorale addizionale per le popolazioni del luogo ottimizzando sia l’uso della manodopera sia la produttività.

Lavorando in media 180 giorni all’anno un aratro speciale (delfino o treno) dissoda circa 1.500 – 2.000 ettari, realizzando così circa 1 milione di buche e consentendo di piantare altrettante piante da seme e creare in pochi anni una vera foresta. Con circa 150/300 mm di pioggia annui i micro bacini riescono a raccogliere tra i due e i quattro metri cubi di acqua piovana aumentando le produzioni agricole e silvo-pastorali e ricaricano anche le falde freatiche. Se invece nelle terre lavorate si seminano miglio, sorgo o leguminose, le produzioni che si ottengono sono sufficienti ad assicurare da sole la l’alimentazione di 1.000 famiglie, aumentando considerevolmente il reddito delle famiglie esistenti.

Il costo della lavorazione dipende dalle caratteristiche del terreno, e dalla distanza delle linee di lavorazione e quindi oscilla tra i 40 e gli 80 euro all’ettaro. La velocità va dai 4 ai 7 km orari che corrisponde ad una superficie lavorata di 1,5 – 2 km l’ora.

Il lavoro dura per anni, ma il primo anno è il più importante perché è l’anno della semina, la cosiddetta «semina diretta» (in cui vengono usate solo specie di piante autoctone a lunga vita seminate nelle singole buche in modo automatizzato) ed è quindi l’anno di massima efficienza del Sistema attraverso la particolare lavorazione del terreno.

Gli anni successivi sono solo «lavori per agevolare la crescita del seme», lavori di controllo e sistemazione delle anse. E poi la natura africana in particolar modo, una volta stimolata, cresce rigogliosa e poiché le buche rimangono tali per circa sette anni, i costi di mantenimento sono moderati e limitati soprattutto all’attrezzatura di ricambio.

Importante è anche il rapporto con i contadini e i pastori del posto che devono essere messi a conoscenza della ragione dell’intervento, renderli partecipi dell’operazione che si sta per attuare per far diventare loro protagonisti della loro terra e del loro futuro in quella terra ormai coltivata e non più arida.

Il Sistema Vallerani dopo l’esperienza africana è approdato dal 2002 anche sulle montagne isolate della Mongolia interna e successivamente in Cina dove nel 2005 è partito un progetto per la lotta alla desertificazione. Anche qui grandi risultati e riconoscimenti ufficiali.

Ad oggi è stato utilizzato in Senegal, Burkina-Faso, Niger, Ciad, Sudan, Kenia, Giordania, Egitto, Marocco, Tunisia, Siria, Mongolia interna e Cina, su una superficie globale di circa 110.000 ettari con risultati ovunque positivi superando ovunque le previsioni stabilite dal progetto.

Di aratri finora ne sono stati venduti solo 70, «pochissimi rispetto all’enorme lavoro necessario per combattere la desertificazione». Su questo problema globale purtroppo ci sono ancora fortissimi interessi economici che fanno sì che la situazione non evolva verso un vero impegno comunitario per lottare contro la siccità e la desertificazione… e intanto il deserto avanza.