Il recupero della biodiversità è un imperativo

892
Tempo di lettura: 4 minuti

Solo nel nostro Paese, sono a rischio di estinzione, ad esempio, oltre 2.000 varietà tra animali e vegetali. Negli ultimi cinquant’anni sono sparite almeno ottanta razze tra bovini, caprini, ovini, suini ed equini. Molte razze antiche e varietà locali sono a rischio scomparsa perché soppiantate dalle varietà più produttive adatte ai sistemi di allevamento e coltivazione intensivi e alle regole del mercato globale

Convegno nazionale della Cia a Urbino per approfondire il grande tema delle scelte produttive dell’agricoltura di domani. Il presidente Scanavino: «La nostra forza è nella differenziazione, nelle tipicità, nei saperi. Un’agricoltura italiana omologata e concentrata su pochi prodotti “muore” nella sfida dei mercati e della globalizzazione».

Nel mondo la biodiversità si sta progressivamente riducendo. In un secolo si sono estinte trecentomila varietà vegetali.
Solo nel nostro Paese, sono a rischio di estinzione, ad esempio, oltre 2.000 varietà tra animali e vegetali. Negli ultimi cinquant’anni sono sparite almeno ottanta razze tra bovini, caprini, ovini, suini ed equini. Molte razze antiche e varietà locali sono a rischio scomparsa perché soppiantate dalle varietà più produttive adatte ai sistemi di allevamento e coltivazione intensivi e alle regole del mercato globale.
La scomparsa di una varietà o di una razza è una perdita per l’intero territorio, poiché significa la scomparsa di un pezzo di storia, della nostra cultura, della nostra memoria, dei saperi sviluppati dagli agricoltori e dalle comunità locali di uno specifico territorio. Custodire e portare a produzione una pianta «rara», così come tornare ad allevare un animale in via d’estinzione, vuol dire quindi salvare un patrimonio economico (miliardi di euro), sociale e culturale straordinario, fatto di eredità contadine e artigiane non scritte, ma ricche e complesse.
La Cia-Confederazione italiana agricoltori, su questo tema, ha promosso oggi ad Urbino il convegno «La biodiversità per le filiere zootecniche dell’Appennino» che si è tenuto ad Urbino, presso il Palazzo del Collegio Raffaello. Un’iniziativa che si inserisce nel palinsesto del più ampio progetto nazionale «Verso il territorio come destino». Si tratta di una serie di incontri pubblici, i cui contenuti alimenteranno il documento che l’organizzazione agricola consegnerà a Expo 2015 come contributo per la stesura della «Carta di Milano».
Il convegno di Urbino è stato aperto dal saluto del sindaco Maurizio Gambini e concluso dal presidente nazionale della Cia, Dino Scanavino. Sono intervenuti tra gli altri, Mauro Malaspina e Sonia Ricci, rispettivamente assessori all’Agricoltura delle Marche e del Lazio; oltre che Stefano Mengoli, presidente del Consorzio di Tutela del Vitellone bianco dell’Appenino centrale; Mirella Gattari, presidente della Cia regionale Marche; Bruno Ronchi dell’Università della Tuscia; Roberto Rubino presidente Anfosc; Mauro Testa vice presidente Aia; Maria Pirrone presidente Agia e Carlo Santarelli del Caseificio sociale di Manciano. I lavori sono stati moderati dallo scrittore Paolo Rumiz.
La tutela e la valorizzazione della biodiversità, è stato detto durante il convegno, rappresenta un passaggio chiave nelle scelte che vuole darsi l’agricoltura e l’agroalimentare italiano per vincere le sfide future.
Oltre alle Dop e Igp, dove comunque l’Italia detiene il primato con 268 certificazioni iscritte nel registro Ue per un fatturato che supera i 13 miliardi al consumo, il nostro Paese vanta anche ben 4.813 prodotti tradizionali che rappresentano la storia e la spina dorsale dell’agroalimentare italiano. Insieme raccontano quel patrimonio di biodiversità, fatto di sapori e tradizioni unici custoditi tra le pieghe del paesaggio rurale, che rende il «made in Italy» così ricercato sui mercati stranieri, ma anche così necessario per la ripresa dell’economia interna.
È importante investire e sostenere le produzioni di qualità tipiche e locali, è stato evidenziato. Perché se è vero che solo il segmento delle Dop e Igp ha prodotto nell’ultimo anno un volume pari a 1,30 milioni di tonnellate, di cui oltre un terzo esportato, con un giro d’affari alla produzione di circa 7 miliardi di euro, è altrettanto vero che questo «business» potrebbe crescere molto di più: basterebbe potenziare, ad esempio, gli strumenti di promozione e marketing a sostegno di quei prodotti certificati ancora sconosciuti.
Oggi, infatti, quasi l’85 per cento del fatturato totale del paniere Dop e Igp italiano è legato esclusivamente alle prime 12 denominazioni (Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Mozzarella di bufala Campana, Prosciutto di Parma, Prosciutto San Daniele, Bresaola della Valtellina, Mortadella di Bologna, Gorgonzola, Pecorino Romano, Aceto balsamico di Modena, Mela dell’Alto Adige, Mela della Val di Non), che da sole realizzano oltre 5 miliardi di fatturato alla produzione, hanno detto negli interventi.
È chiaro, quindi, che ora occorre sviluppare le tante certificazioni meno conosciute, ma suscettibili di forte crescita, come ad esempio il «Vitellone bianco dell’Appennino centrale», non solo aggregando le filiere e favorendo Consorzi partecipati da tutte le componenti produttive, ma soprattutto rafforzando la politica di promozione a partire dalle vetrine internazionali.
Discorso ancora più difficile è quello dei quasi 5.000 prodotti tradizionali. Di queste migliaia di specialità della terra, 1 su 4 è in via di estinzione, visto che attualmente è coltivata da poche aziende agricole che ne custodiscono la memoria. Dalla castagna «ufarella» del Casertano al formaggio «rosa camuna» della Valcamonica; dalla fava di Leonforte dell’Ennese al sedano nero di Trevi: tantissimi sapori spesso del tutto ignorati dai canali ufficiali della Grande distribuzione organizzata, che sono anche i più vulnerabili di fronte alla minaccia del consumo di suolo. Eppure proprio queste specialità, riscoperte e portate avanti da agricoltori custodi che fanno «bioresistenza» e molto apprezzate da chi fa «la spesa in campagna», se valorizzate e riadattate a nuovi modelli di business (dalla vendita diretta alla creazione dei cosiddetti Sistemi alimentari locali), potrebbero valere 11 miliardi di euro l’anno con l’indotto, più del doppio del giro d’affari del turismo enogastronomico italiano (5 miliardi).
«Dobbiamo cogliere l’occasione di una mutata sensibilità per realizzare queste nuove forme di organizzazione sul territorio, come i Consorzi e le reti d’impresa – ha spiegato il presidente Cia Dino Scanavino – che incentivino e valorizzino le nostre produzioni di qualità. D’altra parte, i prodotti tipici e tradizionali non solo rafforzano il “valore relazionale” del cibo tra produttori e consumatori e garantiscono la sostenibilità, mostrando la capacità di evolversi nel rispetto dei cicli naturali e riproducendo i fattori della fertilità, ma, soprattutto, favoriscono lo sviluppo territoriale, l’indotto, l’occupazione e il turismo locale, diventando un vero e proprio fattore di marketing del territorio».