Autonomia differenziata, s’intravedono solo rischi

Tempo di lettura: 3 minuti ֎L’illusione di separare i destini dello stesso popolo o di più popoli avvinti nello stesso contesto nazionale ha causato solo conflitti e non ha portato benefici a nessuno. Basti pensare […]

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«Transizione green può costare 1/3 della produttività delle imprese», l’allarme della Bce

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(Adnkronos) – La transizione energetica può costare circa 1/3 la produttività delle imprese più inquinanti nei prossimi 5 anni. Solo nel lungo periodo, la produttività tornerebbe a crescere, superando persino quella attuale.

Questo è il rapporto in chiaroscuro della Bce poche settimane dopo che la Commissione europea ha svelato i suoi nuovi target di riduzione delle emissioni al 2040: dovranno essere il 90% in meno rispetto ai valori di riferimento del 1990, prima di arrivare all’azzeramento entro il 2050. L’obiettivo, ampiamente dichiarato, è far diventare l’Europa il primo continente climaticamente neutro al mondo, anche se il nuovo target è contenuto in una comunicazione di orientamento e non in un vero e proprio provvedimento normativo.  Dopo le elezioni di giugno, si vedrà se questo obiettivo sarà messo nero su bianco dal nuovo esecutivo. Intanto, la strada verso la transizione green dell’Ue è tracciata da tempo con il Green Deal europeo, di cui la Bce ha approfondito le conseguenze, lanciando qualche allarme sulla produttività delle imprese europee. Come sempre, la sfida è trovare un equilibrio tra la sostenibilità ambientale e la produttività, la redditività delle imprese.

Un equilibrio complesso e spesso analizzato attraverso la dialettica partitica e le relative prese di posizione. Il report redatto dagli esperti dell’Eurotower è l’opportunità per approfondire il tema dalla posizione super partes e istituzionale della Bce. Sulla base delle stime realizzate dallo studio, si prevede che una stretta «green» decisa e rigorosa abbatterà di circa 1/3 le performance economiche delle aziende comunitarie più inquinanti nei prossimi 5 anni. «La transizione verde — si legge nel report — può stimolare l’aumento della produttività, ma ci vorrà tempo».

A destare preoccupazione nel breve-medio termine è l’aumento dei costi di produzione determinato principalmente da due fattori:  – le nuove imposte sulle emissioni di CO2; – le tensioni geopolitiche in atto in Ucraina e in Medio Oriente Gli esperti dell’Eurotower muovono le proprie considerazioni dai dati raccolti in sei tra le più grandi economie nell’area della moneta unica: Italia, Germania, Francia, Spagna, Portogallo e Belgio. Per simulare quali possano essere le ricadute economiche della transizione energetica, si sono considerati le conseguenze di pandemia e caro-energia.

Gli autori del report, però, evidenziano che in quei casi, gli effetti negativi sono stati contenuti grazie a «generosi e rapidi interventi a livello nazionale ed europeo» che hanno sostenuto famiglie e imprese senza produrre effetti distorsivi sull’economia. Una soluzione che, per natura, non può essere strutturale, al contrario della transizione green. Da qui il monito degli economisti dell’Eurotower che però specificano: «i costi della transizione verso un’economia a basse emissioni di CO2 saranno sempre inferiori rispetto a quelli dell’inazione». Come dimostrato da diversi studi, infatti, non investire nella transizione aumenterebbe esponenzialmente i rischi delle aziende e dei cittadini connessi ai disastri ambientali. Secondo le stime, ad esempio, le alluvioni dello scorso anno hanno generato danni per oltre 200.000 dollari a testa per gli emiliani colpiti, con una particolare vulnerabilità degli imprenditori che, in poche ore, hanno visto spazzare via la loro attività, la loro fonte di guadagno.  Uno scenario sempre più concreto, da cui l’assicurazione obbligatoria contro i disastri naturali in capo alle imprese, da stipulare entro il 2024.

In pratica, dunque, la sfida sarà uscire indenni dalla prima fase della transizione. Una lotta per la sopravvivenza in cui rischiano soprattutto le imprese italiane e tedesche. Solo un mese fa, infatti, l’Eurotower aveva spiegato che le imprese nostrane e quelle della Germania sono «le più vulnerabili» tra i principali Paesi dell’eurozona. Diversi i rischi che minacciano il tessuto imprenditoriale dei due Paesi:  – la stretta monetaria; – le turbolenze nel commercio globale; – le tensioni geopolitiche. A rischio, ha spiegato la Bce, il 9% delle imprese italiane, con una esposizione maggiore nel settore industriale, dove le dichiarazioni di fallimento che superano i livelli pre-pandemia. Situazioni su cui pesa anche la crisi demografica.

Le imprese a rischio mostrano una tendenza a investire meno rispetto alle imprese sane, e si registrano aumenti nei crediti deteriorati per le aziende in difficoltà. Gli economisti di Eurotower spiegano che l’impatto economico cambierà in base alle misure. Le politiche ambientali e la produttività aziendale sono strettamente intrecciate, ma l’impatto delle diverse misure può variare significativamente nel tempo. Ad esempio, si prevede che le politiche di sostegno pubblico alla ricerca e allo sviluppo green possano far calare la produttività in fase di transizione, per stimolare la crescita in un secondo momento.

La possibile contrazione della produttività a seguito della transizione energetica, segue diversi canali:  – soprattutto nella prima fase, molte aziende possono avere difficoltà nel reagire a crisi di mercato, per via dell’adattamento alle nuove materie prime, ai nuovi strumenti e ai nuovi meccanismi di produzione (minore elasticità delle imprese); – le nuove tecnologie verdi possono essere meno efficienti di quelle esistenti; – gli investimenti nelle tecnologie verdi potrebbero escludere altri investimenti volti a migliorare la produttività; Tuttavia, secondo il documento, a impattare di più sulle imprese europee saranno gli strumenti «non di mercato», le norme che si basano sul principio del «chi inquina paga» come la nuova imposta sul carbonio alla frontiera (Cbam) e il sistema di scambio delle quote di emissione (Ets).

Queste politiche, spiega ancora la Bce nel suo report, possono avere effetti negativi ridotti ma persistenti sulla produttività delle imprese, soprattutto nei settori industriali ad alta intensità di carbonio. Un ruolo chiave nella resilienza delle imprese può essere giocato dall’evoluzione tecnologica che deve andare di pari passo con quella energetica. Da Francoforte spiegano che l’impatto negativo sulla produttività delle aziende «potrebbe essere compensato a lungo termine dall’adozione di nuove tecnologie più ecologiche e digitali». Sullo sfondo, l’Intelligenza artificiale che può diventare un prezioso alleato delle imprese per evitare di fallire, prima, e per riprendere a macinare, poi.  Non solo: l’Ia può dare un’accelerazione decisa alla transizione green che assume sempre di più le sembianze di una corsa contro il tempo. Entrambi gli ambiti, Esg e Ia, assumono significato grazie ai dati.  L’Esg, che sta per Environmental, Social e Governance, rappresenta infatti un metodo di valutazione delle performance aziendali che si basa su criteri mirati a misurare l’impatto delle operazioni su vari aspetti legati alla sostenibilità ambientale, alla responsabilità sociale e alla governance aziendale.

Questi criteri includono anche l’analisi dei rischi aziendali, degli investimenti e delle operazioni, offrendo una visione approfondita sul rispetto delle normative ambientali, sul coinvolgimento dei dipendenti, sull’etica aziendale e sulla capacità di interagire con gli stakeholder che contribuiscono alla creazione di valore. Sempre di più l’Ue (con la direttiva Csrd in primis) richiede alle imprese un quadro sempre più completo e dettagliato dell’impatto ambientale e sociale delle aziende europee. Valutazioni che sono ormai fondamentali anche per la valutazione finanziaria dell’azienda come dimostra il fatto che le aziende con migliori prestazioni Esg rendono anche (molto) meglio in borsa. L’Ia permette di misurare in maniera estremamente rapida e precisa parametri come le emissioni di gas serra, i consumi energetici, la gestione dei rifiuti e l’impatto della catena di approvvigionamento. In questo modo, le imprese possono risparmiare in termini di risorse economiche e umane, che altrimenti sarebbero allocate nella valutazione di questi indici.

Una tecnologia tutt’altro che priva di rischi (ne abbiamo parlato qui con l’avv. Guido Scorza), ma che può aiutare le aziende anche a massimizzare l’efficienza e minimizzare gli sprechi in fase di produzione, non solo di analisi. Questa tecnologia consente di efficientare gli sforzi e le risorse utilizzate anche grazie ad una capacità predittiva esponenzialmente maggiore rispetto a quella umana. In pratica, l’Intelligenza artificiale ‘calcola’ la soluzione più efficiente per l’impresa senza che quest’ultima utilizzi tempo e risorse per trovare la soluzione migliore. In ultima istanza, l’Ia può permettere alle aziende di sviluppare modelli di apprendimento automatico che aiutano a comprendere e monitorare i rischi Esg, così come a identificare le aree di business in cui è possibile apportare miglioramenti significativi e, quindi, aumentare la produttività. Le nuove tecnologie cui fa riferimento la Bce nel report, possono aiutare le aziende italiane e non a sopravvivere nella prima fase della transizione green, prima che la produttività torni a cavalcare. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Fare e disfare la realtà: stupro? dipende…

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Per «consenso» si intende l’accordo o l’approvazione volontaria e informata tra individui riguardo a un’idea, un’azione, una decisione o a una situazione specifica. È implicito quindi che tutte le parti coinvolte abbiano dato il loro assenso liberamente, senza coercizione o pressioni e con una chiara comprensione di ciò a cui stanno acconsentendo.
Nonostante questa definizione possa sembrare chiara e inequivocabile, i fatti di cronaca più recenti rivelano come questo concetto sia permeato di ambiguità e come la percezione di ciò che può essere considerato consenso sia distorta e influenzata da fattori che vanno oltre la volontà individuale.
In Italia, per esempio, il reato di stupro non è definito come «rapporto sessuale senza consenso», ma è determinato da elementi quali: con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringa taluno a compiere o subire atti sessuali (articolo 609-bis).
Un recente fatto di cronaca è riuscito a scavare un ulteriore solco nel concetto di consenso comunemente inteso. Si tratta del caso dei due ragazzi assolti a Firenze perché hanno avuto un’errata percezione del consenso della ragazza che li ha denunciati.
Nella fattispecie hanno sbagliato a considerare valido il consenso della presunta vittima in una situazione in cui lei, in uno stato di stordimento alcolico, non era nelle condizioni di manifestarlo. Sarebbe molto ironico provare a trasporre questo assunto in altri ambiti, come per esempio quello della sicurezza stradale. Si potrebbe, per esempio, attenuare un reato stradale compiuto in stato di alcolismo.
Va dato atto dell’ambiguità del già citato art. 609 bis del Codice Penale per la mancanza di una reale e precisa definizione della parola consenso; parola che spesso dunque finisce per prestarsi a interpretazioni sessiste e misogine basate sul tasso alcolemico delle donne, sul loro modo di vestire, sulle porte aperte dei bagni e sulle conoscenze e/o rapporti che hanno avuto in passato. Non sembra un azzardo, dunque, dire che questa norma risulta tra i problemi primari relativi alla violenza di genere in Italia, dato che funziona solo se ci si trova davanti a un giudice disposto a interpretare la legge in maniera giusta ed equa, scevra da preconcetti patriarcali.

Francesco Sannicandro

Alleanza verde Salento-Stoccarda per difendere un bosco

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֎È l’ultimo residuo di un bosco mediterraneo che si trova all’interno di una proprietà della Porsche engineering e che si vuol tagliare per allargare la pista di collaudo auto. La petizione dei Comitato Custodi del Bosco d’Arneo e di tutti i cittadini e associazioni per la tutela della natura tedesche֎

Economia circolare, nuove norme UE contro gli sprechi

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(Adnkronos) – Ogni cittadino europeo in media produce ogni anno 131 kg di rifiuti alimentari, per complessivi 60 milioni di tonnellate. Oltre agli sprechi alimentari, anche quelli del settore tessile raggiungono numeri importanti: 12,6 milioni di tonnellate all’anno, dei quali 5,2 milioni di tonnellate provengono da abbigliamento e calzature. Se a ciò si aggiunge che solo l’1% dei rifiuti tessili vengono riciclati per la produzione di nuovi prodotti, si fa presto a comprendere quanto sia necessaria una decisa accelerazione in ottica di economia circolare. Un primo passo sembra essere stato fatto dal Parlamento Europeo che ha di recente votato nuove norme per affrontare il problema degli sprechi alimentari e di quelli della cosiddetta fast fashion.  La normativa comprende nuovi obiettivi vincolanti di riduzione dei rifiuti da raggiungere a livello di singoli Stati membri dell’UE entro il 2030. Nel dettaglio, viene indicata una riduzione minima del 20% nella produzione e trasformazione alimentare, percentuale raddoppiata rispetto a quanto in precedenza indicato dalla Commissione, e del 40% pro capite nella vendita al dettaglio, ristoranti, servizi alimentari e consumatori, rispetto al 30% fissato dalle precedenti norme. In aggiunta, il Parlamento ha chiesto formalmente alla Commissione di valutare se apportare ulteriori modifiche introducendo percentuali di riduzione di rifiuti ancora più elevate per il 2035. Le nuove norme inoltre dovrebbero istituire regimi di responsabilità estesa del produttore, mediante i quali i produttori che vendono prodotti tessili nell’UE sono tenuti a coprire i costi relativi a raccolta differenziata, cernita e riciclo. Gli Stati membri avrebbero tempo 18 mesi dopo l’entrata in vigore della nuova direttiva (contro i 30 mesi proposti in precedenza dalla Commissione) per adottare tali regimi. Le nuove normative riguarderebbero diverse categorie di prodotti, quali abbigliamento e accessori, calzature, materassi, tappeti, biancheria da letto, tende, compresi i materiali che contengono cuoio, gomma, plastica. L’iter delle nuove norme dovrebbe riprendere il percorso legislativo dopo le elezioni europee che si svolgeranno dal 6 al 9 giugno 2024. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Acqua, l’impronta idrica dello spreco alimentare: 151 miliardi di litri persi

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(Adnkronos) – In occasione della Giornata mondiale dell’Acqua del 22 marzo, l’Osservatorio internazionale Waste Watcher, partendo dal report italiano 2024 sulla quantità di cibo sprecato (566,3 grammi pro capite a settimana), ha stimato l’impronta idrica dello spreco alimentare domestico: si tratta di 151,469 miliardi di litri d’acqua che vengo sprecati insieme al cibo.  Se fossero rappresentate in bottiglie d’acqua da mezzo litro, come nell’app Sprecometro, sarebbero ben 302,938 miliardi di bottiglie e ci permetterebbero di fare oltre 4 volte il giro del mondo, se affiancate l’una all’altra.  In termini di stima economica: se equiparassimo l’acqua usata nella produzione di cibo a quella usata in casa, di cui paghiamo le utenze, arriveremmo ad una cifra incredibilmente alta, cioè 395,835 milioni di euro. Tutta la produzione italiana di acqua in bottiglia si attesta a 14,5 miliardi di litri, ed è quindi quasi 10 volte inferiore all’impronta idrica dello spreco alimentare domestico in Italia.  “La crisi climatica – spiega il direttore scientifico dell’Osservatorio Waste Watcher Andrea Segrè – impone a ciascuno di noi comportamenti responsabili nella gestione del cibo così come nell’utilizzo dell’acqua nel nostro quotidiano. Il settore primario usufruisce del 60% delle acque dolci utilizzate dall’uomo, che successivamente finiamo per sprecare, l’acqua è dunque un costo indiretto del cibo gettato. Attraverso l’app Sprecometro, oltre al monitoraggio in grammi dello spreco alimentare individuale e collettivo, possiamo avere la stima della nostra impronta idrica, che varia in base a quale e quanto prodotto viene sprecato. Senza consapevolezza non potremo raggiungere l’obiettivo di dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030, come recita il target 12.3 dell’Agenda 2030 dell’Onu”.  Ogni 22 marzo le Nazioni Unite celebrano la Giornata Mondiale dell’Acqua per sensibilizzare sull’importanza dell’acqua e sulla crisi idrica globale. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Condensatori di nuova tecnologia

Tempo di lettura: 2 minuti Accumulano energia in pochi nanometri ֎Un condensatore che permette di accumulare energia in pochi nanometri per applicazioni fino a media e alta frequenza. Una tecnologia innovativa dai laboratori dell'Università di […]

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Greenwashing, ok del Parlamento Ue alla Direttiva Green Claims: cosa prevede

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(Adnkronos) – Con la direttiva Green Claims, l’Ue fa un ulteriore passo verso un’informazione trasparente e veritiera nell’ambito delle comunicazioni sostenibili. Il voto favorevole dell’Europarlamento alla Direttiva Green Claims (“Dichiarazioni ambientali”) contro il greenwashing è avvenuto martedì 12 marzo con un ampio margine di consenso (467 favorevoli, 65 contrari e 74 astensioni). La nuova posizione mira a porre fine alla diffusione di dichiarazioni ecologiche fuorvianti e a promuovere pratiche di sostenibilità autentiche. Con questo voto, l’Europarlamento invia un chiaro segnale alle imprese affinché assumano un approccio più responsabile e trasparente nei confronti dei consumatori, in modo che la transizione verso un’economia verde e sostenibile non sia solo di facciata.  La proposta presentata un anno fa dalla Commissione Europea ha messo in luce un problema diffuso: la presenza di dichiarazioni green fuorvianti da parte di molti operatori economici.  Ecco cosa prevedono le nuove norme approvate dall’Europarlamento: – Nessuna etichetta senza prova: sicuramente la novità più impattante del testo. Le scritte come “biodegradabile”, “meno inquinante” o “a risparmio idrico” non saranno più ammesse a meno che le aziende non possano fornire prove scientifiche e verificate da enti terzi indipendenti circa la loro veridicità. Non solo: le aziende dovranno fornire queste prove prima di poter commercializzare i propri prodotti con le relative “dichiarazioni green”; – Tempi certi: le autorità nazionali avranno 30 giorni per valutare le dichiarazioni ambientali e le relative prove, con la possibilità di procedure semplificate per i casi più semplici; – Limiti al “carbon neutral”: le aziende non potranno fare dichiarazioni ecologiche basate esclusivamente sugli schemi di compensazione delle emissioni di anidride carbonica. Le imprese potranno utilizzare tali schemi solo dopo aver ridotto al minimo le proprie emissioni. In particolare, i crediti di carbonio degli schemi dovranno essere certificati, come già stabilito dal Carbon Removals Certification Framework; – Sostanze pericolose: le dichiarazioni verdi sui prodotti contenenti sostanze pericolose saranno permesse temporaneamente, ma la Commissione valuterà se debbano essere vietate del tutto. Sotto il profilo sanzionatorio, le aziende che utilizzano dichiarazioni ambientali non verificate potrebbero essere soggette a multe fino al 4% del fatturato annuale o all’esclusione da appalti pubblici o sussidi per un anno. La direttiva Green Claims prevede che le microimprese (meno di 10 dipendenti e fatturato annuo al di sotto dei 2 milioni di euro) siano esentate dalle nuove norme, mentre le Pmi (meno di 250 dipendenti e fatturato annuo inferiore ai 50 milioni di euro o bilancio inferiore ai 43 milioni di euro) avranno un anno in più per adeguarsi. Come riporta economiacircolare.com, già dal 2014 almeno il 75% dei beni sul mercato conteneva dichiarazioni green. Tuttavia, secondo la Commissione Ue, nel 2020 almeno il 53,3% delle informazioni su ambiente e clima presenti in etichetta su un campione esteso di prodotti era ingannevole, il 40% completamente prive di fondamento. Tipica fattispecie di greenwashing. Nel 2022, sono stati identificati 18 casi di greenwashing che hanno coinvolto importanti brand internazionali. L’uso di affermazioni ambientali da parte delle aziende per promuovere un’immagine di sostenibilità che non corrisponde alla realtà è cresciuto di pari passo con la maggiore sensibilità dei consumatori verso la sostenibilità dei prodotti e servizi acquistati.  Le dichiarazioni di greenwashing più frequenti riguardano l’uso improprio di termini come “sostenibile”, “eco-friendly”, “verde”, o l’abuso di certificazioni ambientali poco chiare o ingannevoli. Queste affermazioni possono variare dalla presunta neutralità carbonica di un’azienda, all’utilizzo di materiali riciclati o biologici nei loro prodotti, fino a promesse di contributi alla riduzione dell’inquinamento o alla conservazione della biodiversità, che in realtà non trovano riscontro nelle pratiche aziendali. La consapevolezza dei consumatori riguardo al greenwashing è in crescita, grazie all’aumento dell’attenzione mediatica e alla diffusione di informazioni tramite organizzazioni ambientaliste e piattaforme di divulgazione. Questo ha portato a una maggiore vigilanza da parte dei consumatori, che si mostrano sempre più critici e informati riguardo alle affermazioni ambientali delle aziende. La crescente consapevolezza dei consumatori può anche generare un effetto paradossale: il green hushing, quando le aziende non comunicano il proprio impegno sostenibile per paura di cadere nel…greenwashing.  Le aziende possono “optare” per il green hushing per il timore di essere criticati o accusati di greenwashing se le azioni sostenibili non sono sufficienti o coerenti con il settore di appartenenza; l’incertezza sull’efficacia e sulla misurabilità delle proprie politiche ambientali; la scarsa consapevolezza o importanza attribuita al tema della sostenibilità, considerato come un costo e non come un investimento; la volontà di mantenere un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, evitando di rivelare le proprie strategie e i propri risultati. Eppure, il green hushing è una (non) scelta che non fa bene a nessuno: le aziende perdono l’opportunità di migliorare la reputazione e la fiducia dei consumatori, mentre le buone pratiche e i benefici che la sostenibilità può portare in termini di efficienza, risparmio, qualità e differenziazione restano celati. È innegabile, infatti, che le politiche responsabili adottati da aziende più o meno grandi, spesso diventino un modello da seguire per le altre imprese del settore, contribuendo così a creare uno standard migliore per la sostenibilità. Il focus della Direttiva Green Claim è, chiaramente, la protezione dei consumatori, perché mira a fornire informazioni più accurate e affidabili per permettere agli utenti di effettuare scelte consapevoli.  Il provvedimento, però, non mira solo a proteggere i consumatori da affermazioni ingannevoli, ma anche a realizzare una competizione leale tra le imprese che adottano effettivamente pratiche sostenibili. Con l’evolversi del contesto normativo e sociale, adottare pratiche ambientali trasparenti e verificabili non solo è in linea con le richieste dell’Ue, ma potenzia anche la fiducia dei consumatori nell’autenticità delle dichiarazioni di sostenibilità.  L’iter della Direttiva Green Claim non è ancora concluso, ma il voto dello scorso 12 marzo sarà legalmente vincolante anche per la prossima legislatura. Dopo l’elezione degli eurodeputati del 6-9 giugno, i nuovi rappresentanti riprenderanno il testo da questo punto per passare al trilogo con Consiglio e Commissione, dopo che anche i rappresentanti dei governi nazionali avranno approvato la propria posizione negoziale presso il Consiglio.  Nel frattempo, il relatore della commissione Ambiente dell’europarlamento Cyrus Engerer (S&D) ha evidenziato la natura del provvedimento: “La nostra posizione – ha spiegato a margine del voto – pone fine alla proliferazione di dichiarazioni ecologiche fuorvianti che hanno ingannato i consumatori per troppo tempo. Faremo in modo che le aziende dispongano degli strumenti giusti per adottare pratiche di sostenibilità autentiche. I consumatori europei vogliono fare scelte sostenibili. Tutti coloro che offrono prodotti o servizi devono garantire che le loro dichiarazioni siano verificate scientificamente”. —sostenibilita/csrwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Fare e disfare la realtà: criminalità giovanile

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Il problema della criminalità giovanile che sta affrontando il governo italiano con il decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Decreto Caivano), si era posto negli Stati Uniti durante la Presidenza Bush con la proposta del governo americano di abbassare l’imputabilità a 12 anni, a cui si opposero famosi neurobiologi le cui ricerche avevano documentato che nella prima adolescenza il cervello è ancora in fase di maturazione, non ancora in grado di prevedere le conseguenze dei propri comportamenti. La programmazione e la previsione delle conseguenze dei comportamenti personali, maturano più tardivamente dopo i 20 anni.

Per chiarire meglio queste osservazioni scientifiche basta osservare il comportamento di moltissimi adolescenti in motorino, che attraversano il semaforo col rosso, con la convinzione che a loro non succederà nulla, nonostante si sappia che gli incidenti stradali rappresentano la prima causa di morte in questa età. Negli Stati Uniti dopo questo dibattito si è proceduto in modo diverso nei vari Stati dell’Unione, in molti casi considerando l’età un’attenuante importante.
Nell’affrontare la criminalità giovanile e le baby gang può venirci in soccorso quello che scrisse il giudice Giovanni Falcone per combattere il mondo della mafia: devi entrare nel modo di pensare dei mafiosi, nei loro comportamenti e nei loro codici. Sosteneva che non è sufficiente la repressione, bisogna cercare per quanto possibile di sradicare la cultura mafiosa attorno a loro, che garantisce complicità, omertà e sostegni.

La stessa cosa si può dire oggi a proposito delle baby gang che non nascono oggi, ma hanno profondamente infiltrato il mondo degli adolescenti e dei giovani non solo a Caivano, anche in molte Regioni del Sud e addirittura nelle periferie di Milano. Queste bande sono entrate nel mercato delle droghe, non solo ne fanno ampiamente uso, le spacciano e ne sono corrieri al servizio della criminalità organizzata, che le utilizza anche perché i ragazzi non sono imputabili dato che alcuni di loro non hanno ancora raggiunto i 14 anni.
La loro presenza criminale nelle periferie e nei quartieri crea paura e allarme negli abitanti, rapine, violenze e stupri, e allo stesso tempo costituisce un modello negativo attraente per i coetanei, dal momento che i giovani che ne fanno parte maneggiano in modo spregiudicato e violento soldi, coltelli ed armi.
Per cercare di affrontare questo fenomeno con misure restrittive, che a mio parere non sono in grado di andare alle radici del fenomeno, mi chiedo: quali sono le radici che andrebbero sradicate? Nella maggior parte dei casi gli adolescenti, affiliati a queste gang, vivono in un contesto degradato, in famiglie con alto tasso di disoccupazione e di violenza, incapaci di rappresentare una guida per i figli e motivarli a frequentare le scuole, anche perché l’istruzione rimane troppo lontana e non garantisce l’ingresso nel mondo del lavoro. La stessa organizzazione scolastica, troppo ancorata ai voti e ai programmi, non riesce ad accogliere questi adolescenti a rischio e ad interessarli aiutandoli ad entrare nel contesto educativo.
D’altra parte la scuola non è spesso a tempo pieno e non sa offrire attività sportive, ricreative e pratiche in grado di coinvolgere questi ragazzi. È il motivo per il quale i tassi di abbandono scolastico sono così alti e la strada diventa l’unica cattiva maestra che li arruola in queste bande antisociali.
Lo stesso carattere di questi ragazzi viene plasmato dagli scontri e dalle violenze delle gang, sviluppando atteggiamenti che li fa crescere arroganti e spietati, capaci di aggredire, uccidere, stuprare senza alcun rimorso. Abituati a giocare coi videogiochi violenti, in cui si vince rapinando e sparando, si sentono anche loro protagonisti di un videogioco quotidiano implacabile, che liberando dopamina li fa sentire potenti ed orgogliosi.
Resto convinto che i provvedimenti restrittivi (abbassare l’imputabilità) non siano sufficienti ad affrontare questa piaga giovanile, e che occorra invece una bonifica del territorio in cui si sviluppano le bande giovanili, ridando dignità ai genitori anche sul piano lavorativo, creando un ambiente di vita meno degradato e coinvolgendo la scuola a svolgere un ruolo educativo nel senso più ampio del termine, che faccia leva sul ruolo decisivo degli insegnanti.

 

Francesco Sannicandro

Eolico, il Tar Puglia impone l’odg al Governo

Tempo di lettura: 2 minuti ֎Chiede «Nuova valutazione sui progetti nella provincia di Foggia». Sentenza innovativa da parte dei giudici amministrativi che chiedono alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di chiarire il contrasto tra i […]

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L’inganno del Ponte sullo Stretto di Messina

Tempo di lettura: 9 minuti ֎Il progetto del ponte sullo Stretto rappresenta un grande inganno a danno dell’intera comunità nazionale e una forma di inganno becero perché le conseguenze di un progetto del genere potrebbero […]

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Eolico, la mappa dell’invasione in Puglia

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֎Questi impianti si aggiungono alle diverse centinaia già approvati cui seguono quelli per cui sono in avanzato stato di esame le procedure autorizzative. Si tratta di impianti a terra (on-shore) ed a mare (off-shore). Ma di essi non esiste una visualizzazione cartografica puntuale e pubblica֎

Né belle né brutte ma come pagare…

Tempo di lettura: 4 minuti ...e spetta al governo stabilire gli equilibri delle tasse ֎La polemica anti-tasse è assolutamente irresponsabile. Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima, un modo […]

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Consumi ed emissioni di CO2 in calo complice il clima

Tempo di lettura: 3 minuti ֎L'Analisi trimestrale dell'Enea. Contrazioni maggiori nel settore civile e nell’industria, in aumento i consumi dei trasporti, tornati ai livelli 2019. In forte espansione la spesa pubblica globale in ricerca energetica […]

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Fare e disfare la realtà: accesso alla cittadinanza

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Un allentamento dei requisiti di accesso alla cittadinanza può portare a una forza lavoro migrante più attiva e integrata. I benefici economici che ne derivano non interessano solo i migranti stessi, ma si dispiegano anche sui paesi che li ospitano.
Il parlamento tedesco ha approvato all’inizio di febbraio una significativa riforma della legge sulla cittadinanza, che rende più semplice la naturalizzazione per i residenti stranieri: si riduce da otto a cinque anni il periodo minimo di residenza necessario per poter presentare la domanda ed è possibile mantenere la cittadinanza del paese di origine, in aggiunta a quella tedesca.
L’Italia è invece tra i paesi europei che richiede il più alto numero di anni di residenza (dieci) per potere accedere alla naturalizzazione. Purtuttavia, ritengo che una riforma che renda più semplice l’accesso alla naturalizzazione potrà, quanto prima, avere «fortuna» in quanto aumenterà il numero di persone che otterranno la cittadinanza, fatte salve, tuttavia, le sue ripercussioni sull’integrazione sociale ed economica dei migranti.
L’accesso alla cittadinanza è regolato da rigorosi criteri di ammissibilità: un requisito minimo di residenza, la conoscenza della lingua, soglie di reddito minimo, e così via. Ne consegue, a mio avviso, che la cittadinanza può agire come un «catalizzatore» per l’integrazione, portando a un miglioramento degli esiti occupazionali per coloro che riescono a naturalizzarsi, ad esempio, perché permette ai migranti di accedere a occupazioni meglio retribuite.
Le riforme delle leggi sulla cittadinanza sono spesso accolte con sentimenti contrastanti tra gli elettori. Da un lato, c’è un ampio riconoscimento che concedere la cittadinanza possa favorire l’inclusione e l’integrazione dei migranti nella società ospitante. Dall’altro, in alcuni settori dell’opinione pubblica persistono preoccupazioni profonde riguardo al fatto che un’eccessiva apertura nelle regole di accesso alla cittadinanza possa rendere il paese troppo attraente per i nuovi migranti rispetto ad altre destinazioni, aumentando i futuri arrivi.
Personalmente sono convinto che un allentamento dei requisiti di accesso alla cittadinanza per tutte le categorie di migranti, come previsto dalla riforma tedesca, ha il potenziale di portare a una forza lavoro migrante più attiva e integrata, generando così notevoli benefici economici non solo per i migranti stessi (rifugiati e non), ma anche per i paesi che li ospitano.

 

Francesco Sannicandro

Qualità dell’aria migliora in Italia nel 2023

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(Adnkronos) – La qualità dell’aria migliora in Italia nel 2023. Rispettati nel 2023 i valori limite annuali del particolato atmosferico Pm10 in tutti i punti di misura, come anche quelli del Pm2,5 (311 su 312), con una riduzione media per quest’ultimo di circa il 13% rispetto alla media del decennio 2013-2022. Anche il valore limite giornaliero del Pm10 è stato rispettato nell’89% delle stazioni di monitoraggio, con eccezioni concentrate soprattutto nell’area Nord est del bacino padano (47 superamenti su 63), in porzione della conca a nord del Vesuvio e in provincia di Frosinone. Sono i dati del ‘Rapporto Qualità dell’aria in Italia 2023’ presentato dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente Snpa, costituito dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e dalle Agenzie ambientali di Regioni e Province autonome, a Torino presso la sede di Arpa Piemonte.  Secondo il report, risulta nei limiti in quasi tutte le stazioni di monitoraggio (98%) il valore annuale del biossido di azoto, che nel 2023 segna una riduzione del 19% rispetto al decennio 2013-2022. I superamenti si verificano in stazioni influenzate da alti flussi di traffico stradale: Torino, Milano, Brescia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Catania e Palermo.  Il 2023 è stato l’anno migliore da quando sono disponibili dati di Pm10 e Pm2,5 (metà degli anni ’90, dal 2007 con la rete completa), sia in termini di superamenti della soglia giornaliera del Pm10 sia nei valori medi annuali.  “L’andamento dei valori del particolato è fortemente legato alle condizioni meteorologiche, che hanno influenzato in positivo i risultati del 2023, mentre la riduzione delle emissioni incide soprattutto nel medio e lungo periodo. Preoccupa l’aumento dei periodi di stagnazione atmosferica invernale (inversione termica a bassa quota, alta pressione livellata, assenza di precipitazioni, vento molto debole o assente) in alcune delle aree del paese solitamente più critiche, situazione che si è verificata con particolare rilevanza nei primi mesi del 2024”, spiega Snpa.  In prospettiva, “i monitoraggi dovranno tener conto anche degli effetti delle estremizzazioni atmosferiche causate dal cambiamento climatico. Osservato speciale è l’ozono, inquinante presente specialmente in estate. Nel 2023 l’obiettivo a lungo termine per la protezione della salute umana è stato rispettato solo in 49 stazioni su 344, pari al 14%. Caldo estremo e assenza di precipitazioni favoriscono i superamenti della soglia”.  “Il quadro sostanzialmente positivo dei dati relativi al 2023 conferma un trend in generale miglioramento che deve stimolare a proseguire nelle azioni di risanamento anche alla luce degli obiettivi a cui tendere nel lungo termine per la nuova direttiva dell’Unione Europea sulla qualità dell’aria in via di definizione – conclude Snpa – In particolare, il Sistema Nazionale di Protezione Ambientale sarà chiamato a rafforzare le proprie capacità analitiche per monitorare la composizione chimica del particolato atmosferico in quanto i recenti studi dell’Oms hanno evidenziato che gli effetti sulla salute non dipendono solo dalle concentrazioni di polveri sottili ma anche dalla loro composizione”.  —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

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