Fare e disfare la realtà: «non mi sento italiano»

Tempo di lettura: 2 minuti

Nel risentire casualmente la canzone di Giorgio Gaber «Io non mi sento italiano» scritta nel 2002, ben venti anni fa, mi sono reso conto di quanto i suoi versi siano ancora attuali, di quanto la dicono tutta sull’Italia di ieri, di oggi e chissà anche di domani, se neanche con la scossa dei fondi europei riusciamo a cambiarla.

Ebbene sì, ancora oggi molti di noi non si sentono italiani, perché sono anni che il Paese è gestito da politici e burocrati che pensano solo alle poltrone e a complicare la vita degli italiani. Una classe politica e dirigenziale che non sa prendere decisioni, che si becca come in un pollaio, con le elezioni come unico pensiero e obiettivo…e non si intravede che ciò abbia termine… lo si può solo sperare!
Nel testo della canzone ci sono le parole «per fortuna o purtroppo lo sono»: in esse c’è tutta l’Italia.
Per fortuna, in questo Paese, c’è la bellezza del clima, del mare e dei monti, del sole e delle scogliere. C’è la bellezza dell’arte che ti lascia a bocca aperta. Dal Romano al Rinascimento, dal Barocco al Neorealismo.
Per fortuna c’è l’orgoglio di essere, nonostante tutto, italiani nella moda, nell’artigianato, nell’arte di arrangiarsi e nella creatività degli italiani.
Ma nel «purtroppo lo sono» c’è invece la disperazione di non vedere mai l’uscita del tunnel, di pagare delle tasse elevate per poi ricevere dei servizi scadenti, di vedere scappare all’estero i migliori cervelli. Di vedere l’Alta Velocità che si ferma a Salerno. La banda larga ultraveloce che diventa un lusso per pochi invece che un servizio per tutti, anche per chi non vive nelle grandi città. La didattica a distanza ha messo a nudo il problema.
Gaber attacca politici e parlamentari, la vera zavorra di un Paese che non cresce e che paga le loro incompetenze. «Ma questo nostro Stato che voi rappresentate mi sembra un po’ sfasciato. È anche troppo chiaro agli occhi della gente che tutto è calcolato e non funziona niente… Persino in parlamento c’è un’aria incandescente, si scannano su tutto e poi non cambia niente… il grido “Italia, Italia” c’è solo alle partite». Tralascia, a mio avviso, un dato di fatto: tutto questo consegue alla indifferenza, alla mancata partecipazione degli italiani alla vita politica… siamo noi, nel bene o nel male, che li votiamo.
Per concludere: attualissima mi sembra la frase «Abbiam fatto l’Europa, facciamo anche l’Italia», che si potrebbe tradurre come una invocazione al governo, all’opposizione, alle task force e alle Regioni a sfruttare al massimo i soldi del Next Generation Eu. In modo da poter finalmente dire: Io mi sento italiano.

 

Francesco Sannicandro

In attesa dell’AI sostenibile

Tempo di lettura: 4 minuti ֎L’innovazione responsabile è un impegno che deve essere portato avanti anche dalle aziende private e dai professionisti del settore, consapevoli che è necessario affrontare, ora, dilemmi etici e tensioni che […]

Non puoi leggere tutto l'articolo perché non sei un utente registrato!

Registrati oppure esegui il login.

Fare e disfare la realtà: Netanyahu non è il popolo ebraico

Tempo di lettura: 2 minuti

A Napoli è stato negato il diritto di parola a Maurizio Molinari, in quanto ebreo. Un episodio che è l’immagine di un Paese in cui l’antisemitismo serpeggia ovunque, anche dove meno te l’aspetteresti.
È incredibile ma in Italia nel 2024 è partita la caccia ai «sionisti». I sostenitori dello Stato di Israele, ebrei e non ebrei, ma soprattutto ebrei, da un po’ di tempo fanno fatica a parlare in pubblico. I nuovi untorelli, questi gruppetti di proPal, provocano, intimidiscono, tentano di tappargli la bocca: ormai succede troppo spesso ed è indegno di un Paese democratico. Ultimo episodio squadristico all’Università Federico II a Napoli, dove il direttore di «Repubblica» Maurizio Molinari avrebbe dovuto presentare il suo libro «Mediterraneo conteso» ma un gruppo di studenti dei collettivi con le bandiere palestinesi ha cominciato a urlare per impedire il dibattito. E lo ha impedito. Anche perché Molinari, che pure aveva tentato di stabilire un dialogo, ha deciso di chiudere per evitare guai peggiori. Dopo i fatti, Molinari ha commentato: «Bisogna sempre essere pronti al dialogo, nel rispetto per il prossimo».
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha telefonato a Molinari (tra l’altro direttore di un giornale sul quale scrive da Gaza un palestinese, Sami al-Ajrami) per esprimere la sua solidarietà mentre in una nota ha scritto che «quel che vi è da bandire dalle Università è l’intolleranza, perché con l’Università è incompatibile chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente».
Lo Stato deve consentire ai sostenitori di Israele di poter parlare. Non siamo nel 1938, ma nemmeno nel 1977, quando i violenti non facevano intervenire i democratici.
Da mesi nei cortei studenteschi «From the river to the sea» riecheggia come un selvaggio grido antisemita. Si confonde, per ignoranza ma più spesso per malafede, il governo Netanyahu con il popolo ebraico. E dunque non siamo alla Notte dei cristalli ma è comunque intolleranza verso il «sionista», un termine di cui questi giovanotti non conoscono il senso né la storia.
C’è dunque una grande battaglia politico-culturale da ingaggiare. Contro gli estremisti in primo luogo. Ma anche a sinistra. Sempre sul sionismo, è perfetto ciò che è contenuto nel manifesto di Sinistra per Israele, che ha finora raccolto mille firme: «Il sionismo è stato il legittimo movimento di liberazione nazionale e sociale del popolo ebraico e in esso sono vissuti e tuttora vivono i valori di uguaglianza, giustizia, liberazione umana della sinistra democratica e del progressismo. Soltanto la conoscenza delle radici di Israele può arginare i pregiudizi anti-sionisti e anti-israeliani che albergano nella società italiana, anche a sinistra e nel campo progressista, e che si manifestano attraverso forme antiche e nuove di delegittimazione, di ostilità, quando non di aperto antisemitismo». La battaglia continua ed è facile prevedere che sarà dura e non breve.

 

Francesco Sannicandro

Acqua per la pace

Tempo di lettura: 3 minuti

֎In occasione della Giornata mondiale dell’acqua, ci si deve unire tutti attorno all’acqua e usarla per la pace, gettando le basi di un domani più stabile e prospero֎

Fare e disfare la realtà: Attenzione all’intelligenza artificiale

Tempo di lettura: 2 minuti

Il Parlamento europeo ha approvato l’AI Act, la legge che regolamenterà l’Intelligenza Artificiale nell’Unione europea, prima al mondo nel suo genere.
Il testo però, non verrà promulgato prima di maggio 2024, dato che dovrà essere tradotto in 24 lingue e le necessarie correzioni per adattarlo alle normative nazionali richiederanno un ulteriore voto del Parlamento, previsto per metà aprile, e il via libera del Consiglio dell’Unione europea.
Sebbene fosse fondamentale regolamentare la materia per preservare i diritti fondamentali e la dignità delle persone, non si può essere soddisfatti, a mio avviso, del risultato finale.
Il testo, infatti, non vieta completamente l’utilizzo di sistemi di riconoscimento biometrico negli spazi pubblici, come previsto dalle bozze. Sono state aggiunte eccezioni che consentiranno alle forze dell’ordine di utilizzare sistemi per il riconoscimento facciale (in tempo reale o a posteriori), previa autorizzazione, per una gamma di reati molto ampia.
Il Regolamento ha riposto, infine, particolare attenzione alla tutela dei diritti fondamentali delle persone fisiche, imponendo a istituzioni pubbliche e organizzazioni private che offrono servizi alla collettività (come ad esempio istruzione, assistenza sanitaria, strutture ricettive, servizi sociali e enti che operano nell’assicurazione sulla vita e sulla salute) l’obbligo di effettuare una valutazione dell’impatto sui diritti fondamentali prima di implementare il sistema di intelligenza artificiale ad alto rischio.
Questa valutazione richiede a tali enti di elencare i rischi, le misure di supervisione, le misure di mitigazione del rischio, le categorie di persone fisiche interessate, la frequenza prevista di utilizzo e i processi per i quali il sistema sarà utilizzato.
Nell’insieme la mia visione sull’intelligenza artificiale è abbastanza ottimistica. Si sta sviluppando come mezzo, sta portando cose buone in termini di previsioni ma bisogna fare attenzione agli aspetti negativi. Essa, ad esempio, può essere utilizzata per propagare disinformazione in modo personalizzata sulla base di interessi particolari. Questo chiaramente è molto preoccupante e penso, ad esempio, alle elezioni dell’anno prossimo in Usa, ma questo vale per tutti i Paesi del mondo.

 

Francesco Sannicandro

«Transizione green può costare 1/3 della produttività delle imprese», l’allarme della Bce

0
Tempo di lettura: 5 minuti

(Adnkronos) – La transizione energetica può costare circa 1/3 la produttività delle imprese più inquinanti nei prossimi 5 anni. Solo nel lungo periodo, la produttività tornerebbe a crescere, superando persino quella attuale.

Questo è il rapporto in chiaroscuro della Bce poche settimane dopo che la Commissione europea ha svelato i suoi nuovi target di riduzione delle emissioni al 2040: dovranno essere il 90% in meno rispetto ai valori di riferimento del 1990, prima di arrivare all’azzeramento entro il 2050. L’obiettivo, ampiamente dichiarato, è far diventare l’Europa il primo continente climaticamente neutro al mondo, anche se il nuovo target è contenuto in una comunicazione di orientamento e non in un vero e proprio provvedimento normativo.  Dopo le elezioni di giugno, si vedrà se questo obiettivo sarà messo nero su bianco dal nuovo esecutivo. Intanto, la strada verso la transizione green dell’Ue è tracciata da tempo con il Green Deal europeo, di cui la Bce ha approfondito le conseguenze, lanciando qualche allarme sulla produttività delle imprese europee. Come sempre, la sfida è trovare un equilibrio tra la sostenibilità ambientale e la produttività, la redditività delle imprese.

Un equilibrio complesso e spesso analizzato attraverso la dialettica partitica e le relative prese di posizione. Il report redatto dagli esperti dell’Eurotower è l’opportunità per approfondire il tema dalla posizione super partes e istituzionale della Bce. Sulla base delle stime realizzate dallo studio, si prevede che una stretta «green» decisa e rigorosa abbatterà di circa 1/3 le performance economiche delle aziende comunitarie più inquinanti nei prossimi 5 anni. «La transizione verde — si legge nel report — può stimolare l’aumento della produttività, ma ci vorrà tempo».

A destare preoccupazione nel breve-medio termine è l’aumento dei costi di produzione determinato principalmente da due fattori:  – le nuove imposte sulle emissioni di CO2; – le tensioni geopolitiche in atto in Ucraina e in Medio Oriente Gli esperti dell’Eurotower muovono le proprie considerazioni dai dati raccolti in sei tra le più grandi economie nell’area della moneta unica: Italia, Germania, Francia, Spagna, Portogallo e Belgio. Per simulare quali possano essere le ricadute economiche della transizione energetica, si sono considerati le conseguenze di pandemia e caro-energia.

Gli autori del report, però, evidenziano che in quei casi, gli effetti negativi sono stati contenuti grazie a «generosi e rapidi interventi a livello nazionale ed europeo» che hanno sostenuto famiglie e imprese senza produrre effetti distorsivi sull’economia. Una soluzione che, per natura, non può essere strutturale, al contrario della transizione green. Da qui il monito degli economisti dell’Eurotower che però specificano: «i costi della transizione verso un’economia a basse emissioni di CO2 saranno sempre inferiori rispetto a quelli dell’inazione». Come dimostrato da diversi studi, infatti, non investire nella transizione aumenterebbe esponenzialmente i rischi delle aziende e dei cittadini connessi ai disastri ambientali. Secondo le stime, ad esempio, le alluvioni dello scorso anno hanno generato danni per oltre 200.000 dollari a testa per gli emiliani colpiti, con una particolare vulnerabilità degli imprenditori che, in poche ore, hanno visto spazzare via la loro attività, la loro fonte di guadagno.  Uno scenario sempre più concreto, da cui l’assicurazione obbligatoria contro i disastri naturali in capo alle imprese, da stipulare entro il 2024.

In pratica, dunque, la sfida sarà uscire indenni dalla prima fase della transizione. Una lotta per la sopravvivenza in cui rischiano soprattutto le imprese italiane e tedesche. Solo un mese fa, infatti, l’Eurotower aveva spiegato che le imprese nostrane e quelle della Germania sono «le più vulnerabili» tra i principali Paesi dell’eurozona. Diversi i rischi che minacciano il tessuto imprenditoriale dei due Paesi:  – la stretta monetaria; – le turbolenze nel commercio globale; – le tensioni geopolitiche. A rischio, ha spiegato la Bce, il 9% delle imprese italiane, con una esposizione maggiore nel settore industriale, dove le dichiarazioni di fallimento che superano i livelli pre-pandemia. Situazioni su cui pesa anche la crisi demografica.

Le imprese a rischio mostrano una tendenza a investire meno rispetto alle imprese sane, e si registrano aumenti nei crediti deteriorati per le aziende in difficoltà. Gli economisti di Eurotower spiegano che l’impatto economico cambierà in base alle misure. Le politiche ambientali e la produttività aziendale sono strettamente intrecciate, ma l’impatto delle diverse misure può variare significativamente nel tempo. Ad esempio, si prevede che le politiche di sostegno pubblico alla ricerca e allo sviluppo green possano far calare la produttività in fase di transizione, per stimolare la crescita in un secondo momento.

La possibile contrazione della produttività a seguito della transizione energetica, segue diversi canali:  – soprattutto nella prima fase, molte aziende possono avere difficoltà nel reagire a crisi di mercato, per via dell’adattamento alle nuove materie prime, ai nuovi strumenti e ai nuovi meccanismi di produzione (minore elasticità delle imprese); – le nuove tecnologie verdi possono essere meno efficienti di quelle esistenti; – gli investimenti nelle tecnologie verdi potrebbero escludere altri investimenti volti a migliorare la produttività; Tuttavia, secondo il documento, a impattare di più sulle imprese europee saranno gli strumenti «non di mercato», le norme che si basano sul principio del «chi inquina paga» come la nuova imposta sul carbonio alla frontiera (Cbam) e il sistema di scambio delle quote di emissione (Ets).

Queste politiche, spiega ancora la Bce nel suo report, possono avere effetti negativi ridotti ma persistenti sulla produttività delle imprese, soprattutto nei settori industriali ad alta intensità di carbonio. Un ruolo chiave nella resilienza delle imprese può essere giocato dall’evoluzione tecnologica che deve andare di pari passo con quella energetica. Da Francoforte spiegano che l’impatto negativo sulla produttività delle aziende «potrebbe essere compensato a lungo termine dall’adozione di nuove tecnologie più ecologiche e digitali». Sullo sfondo, l’Intelligenza artificiale che può diventare un prezioso alleato delle imprese per evitare di fallire, prima, e per riprendere a macinare, poi.  Non solo: l’Ia può dare un’accelerazione decisa alla transizione green che assume sempre di più le sembianze di una corsa contro il tempo. Entrambi gli ambiti, Esg e Ia, assumono significato grazie ai dati.  L’Esg, che sta per Environmental, Social e Governance, rappresenta infatti un metodo di valutazione delle performance aziendali che si basa su criteri mirati a misurare l’impatto delle operazioni su vari aspetti legati alla sostenibilità ambientale, alla responsabilità sociale e alla governance aziendale.

Questi criteri includono anche l’analisi dei rischi aziendali, degli investimenti e delle operazioni, offrendo una visione approfondita sul rispetto delle normative ambientali, sul coinvolgimento dei dipendenti, sull’etica aziendale e sulla capacità di interagire con gli stakeholder che contribuiscono alla creazione di valore. Sempre di più l’Ue (con la direttiva Csrd in primis) richiede alle imprese un quadro sempre più completo e dettagliato dell’impatto ambientale e sociale delle aziende europee. Valutazioni che sono ormai fondamentali anche per la valutazione finanziaria dell’azienda come dimostra il fatto che le aziende con migliori prestazioni Esg rendono anche (molto) meglio in borsa. L’Ia permette di misurare in maniera estremamente rapida e precisa parametri come le emissioni di gas serra, i consumi energetici, la gestione dei rifiuti e l’impatto della catena di approvvigionamento. In questo modo, le imprese possono risparmiare in termini di risorse economiche e umane, che altrimenti sarebbero allocate nella valutazione di questi indici.

Una tecnologia tutt’altro che priva di rischi (ne abbiamo parlato qui con l’avv. Guido Scorza), ma che può aiutare le aziende anche a massimizzare l’efficienza e minimizzare gli sprechi in fase di produzione, non solo di analisi. Questa tecnologia consente di efficientare gli sforzi e le risorse utilizzate anche grazie ad una capacità predittiva esponenzialmente maggiore rispetto a quella umana. In pratica, l’Intelligenza artificiale ‘calcola’ la soluzione più efficiente per l’impresa senza che quest’ultima utilizzi tempo e risorse per trovare la soluzione migliore. In ultima istanza, l’Ia può permettere alle aziende di sviluppare modelli di apprendimento automatico che aiutano a comprendere e monitorare i rischi Esg, così come a identificare le aree di business in cui è possibile apportare miglioramenti significativi e, quindi, aumentare la produttività. Le nuove tecnologie cui fa riferimento la Bce nel report, possono aiutare le aziende italiane e non a sopravvivere nella prima fase della transizione green, prima che la produttività torni a cavalcare. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Fare e disfare la realtà: stupro? dipende…

Tempo di lettura: 2 minuti

Per «consenso» si intende l’accordo o l’approvazione volontaria e informata tra individui riguardo a un’idea, un’azione, una decisione o a una situazione specifica. È implicito quindi che tutte le parti coinvolte abbiano dato il loro assenso liberamente, senza coercizione o pressioni e con una chiara comprensione di ciò a cui stanno acconsentendo.
Nonostante questa definizione possa sembrare chiara e inequivocabile, i fatti di cronaca più recenti rivelano come questo concetto sia permeato di ambiguità e come la percezione di ciò che può essere considerato consenso sia distorta e influenzata da fattori che vanno oltre la volontà individuale.
In Italia, per esempio, il reato di stupro non è definito come «rapporto sessuale senza consenso», ma è determinato da elementi quali: con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringa taluno a compiere o subire atti sessuali (articolo 609-bis).
Un recente fatto di cronaca è riuscito a scavare un ulteriore solco nel concetto di consenso comunemente inteso. Si tratta del caso dei due ragazzi assolti a Firenze perché hanno avuto un’errata percezione del consenso della ragazza che li ha denunciati.
Nella fattispecie hanno sbagliato a considerare valido il consenso della presunta vittima in una situazione in cui lei, in uno stato di stordimento alcolico, non era nelle condizioni di manifestarlo. Sarebbe molto ironico provare a trasporre questo assunto in altri ambiti, come per esempio quello della sicurezza stradale. Si potrebbe, per esempio, attenuare un reato stradale compiuto in stato di alcolismo.
Va dato atto dell’ambiguità del già citato art. 609 bis del Codice Penale per la mancanza di una reale e precisa definizione della parola consenso; parola che spesso dunque finisce per prestarsi a interpretazioni sessiste e misogine basate sul tasso alcolemico delle donne, sul loro modo di vestire, sulle porte aperte dei bagni e sulle conoscenze e/o rapporti che hanno avuto in passato. Non sembra un azzardo, dunque, dire che questa norma risulta tra i problemi primari relativi alla violenza di genere in Italia, dato che funziona solo se ci si trova davanti a un giudice disposto a interpretare la legge in maniera giusta ed equa, scevra da preconcetti patriarcali.

Francesco Sannicandro

Acqua, l’impronta idrica dello spreco alimentare: 151 miliardi di litri persi

0
Tempo di lettura: < 1 minuto

(Adnkronos) – In occasione della Giornata mondiale dell’Acqua del 22 marzo, l’Osservatorio internazionale Waste Watcher, partendo dal report italiano 2024 sulla quantità di cibo sprecato (566,3 grammi pro capite a settimana), ha stimato l’impronta idrica dello spreco alimentare domestico: si tratta di 151,469 miliardi di litri d’acqua che vengo sprecati insieme al cibo.  Se fossero rappresentate in bottiglie d’acqua da mezzo litro, come nell’app Sprecometro, sarebbero ben 302,938 miliardi di bottiglie e ci permetterebbero di fare oltre 4 volte il giro del mondo, se affiancate l’una all’altra.  In termini di stima economica: se equiparassimo l’acqua usata nella produzione di cibo a quella usata in casa, di cui paghiamo le utenze, arriveremmo ad una cifra incredibilmente alta, cioè 395,835 milioni di euro. Tutta la produzione italiana di acqua in bottiglia si attesta a 14,5 miliardi di litri, ed è quindi quasi 10 volte inferiore all’impronta idrica dello spreco alimentare domestico in Italia.  “La crisi climatica – spiega il direttore scientifico dell’Osservatorio Waste Watcher Andrea Segrè – impone a ciascuno di noi comportamenti responsabili nella gestione del cibo così come nell’utilizzo dell’acqua nel nostro quotidiano. Il settore primario usufruisce del 60% delle acque dolci utilizzate dall’uomo, che successivamente finiamo per sprecare, l’acqua è dunque un costo indiretto del cibo gettato. Attraverso l’app Sprecometro, oltre al monitoraggio in grammi dello spreco alimentare individuale e collettivo, possiamo avere la stima della nostra impronta idrica, che varia in base a quale e quanto prodotto viene sprecato. Senza consapevolezza non potremo raggiungere l’obiettivo di dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030, come recita il target 12.3 dell’Agenda 2030 dell’Onu”.  Ogni 22 marzo le Nazioni Unite celebrano la Giornata Mondiale dell’Acqua per sensibilizzare sull’importanza dell’acqua e sulla crisi idrica globale. —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Fare e disfare la realtà: criminalità giovanile

Tempo di lettura: 3 minuti

Il problema della criminalità giovanile che sta affrontando il governo italiano con il decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Decreto Caivano), si era posto negli Stati Uniti durante la Presidenza Bush con la proposta del governo americano di abbassare l’imputabilità a 12 anni, a cui si opposero famosi neurobiologi le cui ricerche avevano documentato che nella prima adolescenza il cervello è ancora in fase di maturazione, non ancora in grado di prevedere le conseguenze dei propri comportamenti. La programmazione e la previsione delle conseguenze dei comportamenti personali, maturano più tardivamente dopo i 20 anni.

Per chiarire meglio queste osservazioni scientifiche basta osservare il comportamento di moltissimi adolescenti in motorino, che attraversano il semaforo col rosso, con la convinzione che a loro non succederà nulla, nonostante si sappia che gli incidenti stradali rappresentano la prima causa di morte in questa età. Negli Stati Uniti dopo questo dibattito si è proceduto in modo diverso nei vari Stati dell’Unione, in molti casi considerando l’età un’attenuante importante.
Nell’affrontare la criminalità giovanile e le baby gang può venirci in soccorso quello che scrisse il giudice Giovanni Falcone per combattere il mondo della mafia: devi entrare nel modo di pensare dei mafiosi, nei loro comportamenti e nei loro codici. Sosteneva che non è sufficiente la repressione, bisogna cercare per quanto possibile di sradicare la cultura mafiosa attorno a loro, che garantisce complicità, omertà e sostegni.

La stessa cosa si può dire oggi a proposito delle baby gang che non nascono oggi, ma hanno profondamente infiltrato il mondo degli adolescenti e dei giovani non solo a Caivano, anche in molte Regioni del Sud e addirittura nelle periferie di Milano. Queste bande sono entrate nel mercato delle droghe, non solo ne fanno ampiamente uso, le spacciano e ne sono corrieri al servizio della criminalità organizzata, che le utilizza anche perché i ragazzi non sono imputabili dato che alcuni di loro non hanno ancora raggiunto i 14 anni.
La loro presenza criminale nelle periferie e nei quartieri crea paura e allarme negli abitanti, rapine, violenze e stupri, e allo stesso tempo costituisce un modello negativo attraente per i coetanei, dal momento che i giovani che ne fanno parte maneggiano in modo spregiudicato e violento soldi, coltelli ed armi.
Per cercare di affrontare questo fenomeno con misure restrittive, che a mio parere non sono in grado di andare alle radici del fenomeno, mi chiedo: quali sono le radici che andrebbero sradicate? Nella maggior parte dei casi gli adolescenti, affiliati a queste gang, vivono in un contesto degradato, in famiglie con alto tasso di disoccupazione e di violenza, incapaci di rappresentare una guida per i figli e motivarli a frequentare le scuole, anche perché l’istruzione rimane troppo lontana e non garantisce l’ingresso nel mondo del lavoro. La stessa organizzazione scolastica, troppo ancorata ai voti e ai programmi, non riesce ad accogliere questi adolescenti a rischio e ad interessarli aiutandoli ad entrare nel contesto educativo.
D’altra parte la scuola non è spesso a tempo pieno e non sa offrire attività sportive, ricreative e pratiche in grado di coinvolgere questi ragazzi. È il motivo per il quale i tassi di abbandono scolastico sono così alti e la strada diventa l’unica cattiva maestra che li arruola in queste bande antisociali.
Lo stesso carattere di questi ragazzi viene plasmato dagli scontri e dalle violenze delle gang, sviluppando atteggiamenti che li fa crescere arroganti e spietati, capaci di aggredire, uccidere, stuprare senza alcun rimorso. Abituati a giocare coi videogiochi violenti, in cui si vince rapinando e sparando, si sentono anche loro protagonisti di un videogioco quotidiano implacabile, che liberando dopamina li fa sentire potenti ed orgogliosi.
Resto convinto che i provvedimenti restrittivi (abbassare l’imputabilità) non siano sufficienti ad affrontare questa piaga giovanile, e che occorra invece una bonifica del territorio in cui si sviluppano le bande giovanili, ridando dignità ai genitori anche sul piano lavorativo, creando un ambiente di vita meno degradato e coinvolgendo la scuola a svolgere un ruolo educativo nel senso più ampio del termine, che faccia leva sul ruolo decisivo degli insegnanti.

 

Francesco Sannicandro

Né belle né brutte ma come pagare…

Tempo di lettura: 4 minuti ...e spetta al governo stabilire gli equilibri delle tasse ֎La polemica anti-tasse è assolutamente irresponsabile. Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima, un modo […]

Non puoi leggere tutto l'articolo perché non sei un utente registrato!

Registrati oppure esegui il login.

Fare e disfare la realtà: accesso alla cittadinanza

Tempo di lettura: 2 minuti

Un allentamento dei requisiti di accesso alla cittadinanza può portare a una forza lavoro migrante più attiva e integrata. I benefici economici che ne derivano non interessano solo i migranti stessi, ma si dispiegano anche sui paesi che li ospitano.
Il parlamento tedesco ha approvato all’inizio di febbraio una significativa riforma della legge sulla cittadinanza, che rende più semplice la naturalizzazione per i residenti stranieri: si riduce da otto a cinque anni il periodo minimo di residenza necessario per poter presentare la domanda ed è possibile mantenere la cittadinanza del paese di origine, in aggiunta a quella tedesca.
L’Italia è invece tra i paesi europei che richiede il più alto numero di anni di residenza (dieci) per potere accedere alla naturalizzazione. Purtuttavia, ritengo che una riforma che renda più semplice l’accesso alla naturalizzazione potrà, quanto prima, avere «fortuna» in quanto aumenterà il numero di persone che otterranno la cittadinanza, fatte salve, tuttavia, le sue ripercussioni sull’integrazione sociale ed economica dei migranti.
L’accesso alla cittadinanza è regolato da rigorosi criteri di ammissibilità: un requisito minimo di residenza, la conoscenza della lingua, soglie di reddito minimo, e così via. Ne consegue, a mio avviso, che la cittadinanza può agire come un «catalizzatore» per l’integrazione, portando a un miglioramento degli esiti occupazionali per coloro che riescono a naturalizzarsi, ad esempio, perché permette ai migranti di accedere a occupazioni meglio retribuite.
Le riforme delle leggi sulla cittadinanza sono spesso accolte con sentimenti contrastanti tra gli elettori. Da un lato, c’è un ampio riconoscimento che concedere la cittadinanza possa favorire l’inclusione e l’integrazione dei migranti nella società ospitante. Dall’altro, in alcuni settori dell’opinione pubblica persistono preoccupazioni profonde riguardo al fatto che un’eccessiva apertura nelle regole di accesso alla cittadinanza possa rendere il paese troppo attraente per i nuovi migranti rispetto ad altre destinazioni, aumentando i futuri arrivi.
Personalmente sono convinto che un allentamento dei requisiti di accesso alla cittadinanza per tutte le categorie di migranti, come previsto dalla riforma tedesca, ha il potenziale di portare a una forza lavoro migrante più attiva e integrata, generando così notevoli benefici economici non solo per i migranti stessi (rifugiati e non), ma anche per i paesi che li ospitano.

 

Francesco Sannicandro

Fare e disfare la realtà: giovani, lavoro e abusi

Tempo di lettura: 2 minuti

Attraverso una variegata tipologia di condizioni che ruotano intorno al concetto di «formazione pratica» (dai laboratori, all’azienda simulata, al tirocinio, allo stage, fino all’apprendistato) i giovani che seguono questo percorso vengono inseriti precocemente nel mondo produttivo direttamente dalla scuola; in modi, tutti rigorosamente formalizzati, che se raramente prevedono una remunerazione per gli studenti, al contrario comportano sempre vantaggi economici agli imprenditori in tutti i settori economico-produttivi: sgravi contributivi e fiscali, sgravi retributivi, incentivi.

Per questi ragazzi non sono previsti neppure nel primo biennio (obbligatorio) percorsi di istruzione con la stessa caratura culturale di licei e istituti tecnici: persino per l’italiano, materia fondamentale e trasversale, il ministero dell’Istruzione ha previsto per loro scarnificate Linee guida a fronte delle ricche Indicazioni nazionali dei loro coetanei.
Sappiamo che in molte circostanze si verificano forme di sfruttamento: chi di noi non ha mai avuto esperienza diretta (dal parrucchiere, in un centro servizi, in un’officina) di giovanissime lavoratrici e lavoratori ancora studenti impiegati gratis in tirocini formativi o sottopagati nell’apprendistato? Un apprendistato che la legge italiana scandalosamente equipara all’assolvimento dell’obbligo scolastico, come se studiare la letteratura o la matematica a 15 anni nelle aule di un liceo o di un istituto tecnico sia esattamente lo stesso che imparare ad avvitare un bullone. Sappiamo anche che si possono verificare casi in cui l’attività di formazione aziendale proposta e concordata con la scuola si riveli del tutto inadeguata, o casi in cui la gestione privatistica dei fondi pubblici per il finanziamento di questi enti sia discutibile, ove non irregolare.
Non si può morire sul lavoro a qualunque età e in qualunque contesto, a maggior ragione non si può morire sul lavoro mentre si sta frequentando una scuola per impararlo.
Sul lavoro non si muore quasi mai per tragica fatalità. Si muore per la mancanza di controlli, per la carenza di ispezioni, per l’abnormità e l’opacità di norme che si affastellano come tante gride manzoniane e permettono di saltare passaggi essenziali; si muore per risparmiare sulle misure di sicurezza, sui materiali, sulle procedure. Per risparmiare tempo, o per incrementare i profitti. Si muore per l’assenza delle istituzioni che dovrebbero garantire la vigilanza, che dovrebbero perseguire gli abusi, sanzionare le omissioni, punire duramente i colpevoli, esercitare un controllo troppo spesso ridotto a mero e inefficace adempimento burocratico.
È su questo terreno che, oggi, in Italia, la scuola incontra il lavoro. Che i nostri studenti incontrano il mondo del lavoro. Un lavoro sempre più insicuro, precario, privo di tutele, povero, in molti casi drammaticamente pericoloso, al quale i giovani sono precocemente destinati e soprattutto formati, addirittura fin dai banchi di scuola, nella loro condizione di «capitale umano» ovvero «forza lavoro» sempre più adattata alle esigenze del mondo produttivo e deprivata di capacità critica, conoscenza dei propri diritti, possibilità di autodeterminazione.
Agli studenti che in queste settimane hanno manifestato in tante città italiane per esprimere solidarietà e rabbia, a loro si riservano le feroci manganellate della polizia, accompagnate da puntuali e burocratiche interrogazioni parlamentari; dalle logore parole retoriche di circostanza dei ministri, dei decisori politici, dei vertici delle istituzioni.

 

Francesco Sannicandro

Fare e disfare la realtà: la sanità

Tempo di lettura: < 1 minuto

Vi è l’urgente bisogno di un intervento finanziario strutturale che aumenti la percentuale delle finanze pubbliche destinata alla sanità ed eviti l’illogica proposta che fa ora il governo di aumentare la spesa per la «difesa» propagandata come necessità per la futura aggressione che la Russia farebbe contro paesi europei, tra cui l’Italia.
Una illazione senza alcuna base, ma che il complesso militare-industriale italiano spinge perché già vede ancora più lauti guadagni. Da cittadini pensanti diciamo: no a questo spostamento verso le armi; sì all’aumento necessario per assicurare un Ssn che assicuri ai cittadini il diritto alla salute.
Il paradosso del Pnrr è che l’Italia ha accumulato altro debito per costruire nuove strutture sanitarie e installare nuovi impianti e macchinari… a medici invariati.
La carenza di specialisti, ad esempio, è dovuta al demenziale metodo, tutto italiano, della formazione specialistica: in tutta la Ue i medici si specializzano lavorando in ospedale, come del resto succedeva prima del 1990 anche da noi. Il numero degli specializzandi è rimasto costante anche se si sapeva (si doveva sapere) che ci sarebbe stata un’impennata di pensionamenti.
Altro, ma più importante aspetto è che la riforma del 1978 è stata fatta in tempi in cui la medicina era ancora priva delle tecnologie apparse dopo qualche anno (ecografia, Tac, Rmn ecc.) che hanno rivoluzionato l’organizzazione del lavoro medico, ma di cui i governi non si sono accorti.

 

Francesco Sannicandro

Le professioni della sostenibilità, quali sono e come cambiano

0
Tempo di lettura: 3 minuti

(Adnkronos) – Negli ultimi anni, la sostenibilità non è rimasta soltanto un concetto astratto, ma è diventata un pilastro fondamentale delle pratiche aziendali, trasformandosi da mero optional a vantaggio competitivo. Questo nuovo paradigma richiede una comunicazione efficace per diffondere i valori della responsabilità sociale d’impresa e creare un impatto tangibile. Grazie alla ricerca condotta dal Centro di ricerca per la comunicazione strategica (Cecoms) dell’Università Iulm, pubblicata dall’International Corporate Communication Hub, emergono scenari chiari sulle professioni del futuro legate alla sostenibilità e alla comunicazione.

La comunicazione, vera e propria arte di connessione, si erge come il ponte vitale tra le imprese e coloro che ne sono interessati, gli stakeholders. Non solo contribuisce a definire e divulgare gli imperativi della sostenibilità aziendale, ma plasma anche l’opinione pubblica sull’azienda stessa. Attraverso un’analisi puntuale, condotta su circa 1.000 offerte di lavoro pubblicate su LinkedIn nell’arco di un anno, dal settembre 2022 al settembre 2023, è stata scalfita la superficie del mercato lavorativo, selezionando offerte mirate con termini chiave legati alla sostenibilità.

Questo studio ha gettato luce su un vasto spettro di 36 settori industriali, rivelando che le aziende sono in fervida ricerca di figure professionali legate alla sostenibilità come manager ambientali, csr manager, esperti di reporting e vendite nel settore delle tecnologie eco-sostenibili. Ma non finisce qui: nel campo della comunicazione, la domanda si concentra su ruoli come i comunicatori per gli stakeholders, gli esperti ESG, i pianificatori strategici e gli analisti di reportistica. I risultati di questa ricerca non solo disvelano le competenze più richieste, ma fungono anche da fondamento per sviluppare strategie formative su misura.

Questi dati sono inoltre il pilastro su cui costruire linee guida per la gestione delle risorse umane all’interno delle aziende, garantendo la creazione di programmi di sviluppo delle competenze aderenti alle esigenze emergenti del mercato del lavoro in ambito sostenibilità. Le testimonianze di esperti del settore, intervenuti alla presentazione della ricerca, confermano l’importanza crescente della sostenibilità nel contesto aziendale. Pierangelo Fabiano, segretario generale Icch, sottolinea come la sostenibilità sia diventata un asset essenziale per tutte le aziende, influenzando sia le professioni legate direttamente alla sostenibilità che quelle della comunicazione: «La ricerca mette in luce quanto le aziende siano sempre più interessate ad aggiungere al proprio core business nuove professioni legate alla sostenibilità e quelle impegnate nella comunicazione della sostenibilità. Due dimensioni che oggi si intrecciano e si completano e non si possono scindere tra loro».

Simone Bemporad, Generali group chief communications and public affairs officer, sottolinea l’importanza cruciale delle metriche ESG (Environmental, Social, Governance) nel contesto della sostenibilità aziendale sulle quali le società sono chiamate ad agire. Inoltre, Bemporad evidenzia il fatto che le professioni legate alla sostenibilità coinvolgono ormai tutti i settori lavorativi, richiedendo una trasformazione dei ruoli e delle competenze per adattarsi a questa nuova realtà. E conclude: «Il grande cambiamento da attuare è quello, prima di definire un servizio o un prodotto, di domandarci: come andiamo a valutare il suo impatto sulla sfera E, quella S e poi G?».

Patrizia Rutigliano, strategist in ESG e corporate affairs per Poste Italiane e membro indipendente del consiglio di amministrazione di Acea, evidenzia l’evoluzione della sostenibilità da una mera questione di costi a una fonte di generazione di ricavi. Questo cambiamento, avvenuto nel corso di vent’anni, è stato influenzato da significative evoluzioni normative a livello globale, come il Green Deal e l’Inflation Reduction Act. Rutigliano prospetta una trasformazione manageriale senza precedenti nell’ambito dell’energy transition e della digital decade. «In fin dei conti — conclude — per riuscire ad avere una reportistica compliant con tutto quello che ci viene richiesto, dobbiamo cambiare completamente il nostro modo di lavorare. Questa, credo, sia la più grande rivoluzione che probabilmente affronteremo in questi anni».

Nel panorama delle professioni legate alla sostenibilità «spiccano i manager ambientali, ingegneri che efficienteranno i processi produttivi e il Csr manager, che si occupa di raccontare l’impegno etico delle aziende, del loro impatto, di come stanno impegnando ad avere un impatto positivo sulla società» precisa Elanor Colleoni, ricercatrice presso l’Università IULM, evidenziando, inoltre, una crescente domanda di lavoro in questo settore e l’emergere di profili chiave come i consulenti aziendali esterni.

Allo stesso modo, Gloria Zavatta, membro del Consiglio di Amministrazione di Amat e presidente della Fondazione Cesvi, sottolinea l’importanza di una strategia interna alla Fondazione, basata su un approccio improntato alla sostenibilità in tutte le sue attività, interazioni e relazioni con le comunità locali coinvolte nei progetti: «Cesvi supporta la volontà dell’impresa di agire in varie parti del mondo e cerca di realizzare queste progettualità in sintonia con gli obiettivi stessi delle imprese». In un mondo sempre più orientato verso la sostenibilità, la trasformazione dei ruoli e delle competenze diventa una necessità imprescindibile per rimanere competitivi e per garantire un futuro sostenibile per le generazioni a venire. —sostenibilita/csrwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

Fare e disfare la realtà: Dossieropoli

Tempo di lettura: 2 minuti

All’interno di un’antica tradizione mi sembra si inserisca il bizzarro caso di questi giorni. Si tratta davvero di una singolare «Dossieropoli», in cui tutti i protagonisti, per prima cosa, si affrettano a precisare di non avere mai parlato di «dossieraggi». Solo per stare alle incomprensibili notizie di oggi, la stampa dà conto da un lato della decisione di Giorgia Meloni di bloccare la proposta di una commissione d’inchiesta (appena avanzata dai suoi ministri della Giustizia e della Difesa, cioè quello stesso Guido Crosetto che dei non-dossier sarebbe la prima vittima, e dalla cui denuncia sembrerebbe essere partito tutto), dall’altro di un inatteso comunicato del procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, il quale annuncia di avere «attivato le proprie funzioni di sorveglianza», sottolineando che «l’attività di vigilanza sui rapporti con gli organi di informazione dei procuratori del distretto» gli impone di «verificare il corretto bilanciamento tra il doveroso diritto dell’opinione pubblica ad essere informata nella fase delle indagini ed il rispetto della presunzione di innocenza».
Nel frattempo, come tutti i giornali riportano in qualche pagina interna, molto in fondo, la sentenza sul famigerato caso Consip che aveva fatto tremare il governo guidato da Matteo Renzi, con le indagini sul padre Tiziano e sul braccio destro Luca Lotti, si conclude con solo due condanne, non agli indagati, ma agli indagatori. Cioè agli ufficiali accusati di avere rivelato ripetutamente ad alcuni giornalisti atti coperti da segreto investigativo (che peraltro sarebbe l’aspetto di gran lunga meno grave di quanto emerso nel modo di gestire le indagini e soprattutto le intercettazioni, i cui verbali erano stati significativamente manipolati).
Se arrivati a questo punto sentite di esservi persi, e avete solo la sgradevole impressione di essere le vittime collaterali di una interminabile guerra per bande tra diverse correnti della politica, del giornalismo, della magistratura e dei servizi, direi che avete colto il punto essenziale. Ma nemmeno questa, purtroppo, è una novità.

 

Francesco Sannicandro

Fare e disfare la realtà: fonti e informazione

Tempo di lettura: < 1 minuto

Il diritto alla riservatezza delle persone che forniscono informazioni ai cronisti è previsto dalla deontologia del giornalista, ma lo prevede la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), come estensione dell’articolo 10 della convenzione europea. Quest’articolo assicura la libertà di espressione, compresa quella di stampa. Con una sentenza del 2020, la Cedu ha rafforzato questa libertà, includendo la protezione del giornalista in ogni fase della sua attività e tuteli l’esercizio della sua funzione di guardiano del potere.
Tra questi strumenti c’è anche la tutela della segretezza delle fonti, che svelano fatti al giornalista con la garanzia dell’anonimato.
Nessuno può obbligare un giornalista a rivelare la fonte della sua notizia, anche nel caso possa essere utile all’autorità giudiziaria per individuare l’autore di un reato. Senza la protezione della segretezza delle fonti, sarebbero loro per prime a non comunicare più notizie di interesse generale: la conseguenza è che l’opinione pubblica sarebbe privata del diritto a ricevere informazioni utili all’esercizio delle proprie scelte politiche.
Il caso da cui nasce l’inchiesta di Perugia mette a dura prova la libertà di stampa. C’è un ministro che non denuncia per diffamazione dei cronisti, ma chiede a dei magistrati di indagare sulle loro fonti perché le informazioni che hanno rivelato (vere, verificate e non smentibili) potrebbero essere state fornite accedendo a dei dati riservati.
Va detto che anche la federazione dei giornalisti europei ha «richiamato» il governo italiano «a rispettare la rule of law e gli standard legali europei per la protezione delle fonti giornalistiche».

 

Francesco Sannicandro

Fare e disfare la realtà: Gaza

Tempo di lettura: < 1 minuto

Il presidente americano ha dedicato alla guerra contro Hamas la chiusura del discorso sullo stato dell’Unione, dichiarandosi il miglior amico che lo stato ebraico abbia mai avuto, ma anche preoccupato per le condizioni dei civili palestinesi. Per loro presto un porto temporaneo sulla costa di Gaza per consentire la consegna di aiuti umanitari su larga scala. L’urgenza secondo la Casa Bianca è data dal fatto che l’attuale mancanza di cibo e farmaci sta mettendo in pericolo 2,3 milioni di palestinesi sul territorio. Il programma di consegna via mare dovrebbe essere realizzato in alcune settimane, ma sono in molti a chiedersi se questo sistema consentirà aiuti sufficienti a tamponare la fame e il rischio epidemico e soprattutto se la popolazione allo stremo potrà resistere mentre si realizza questa struttura.

Da parte degli attivisti e degli esperti umanitari si plaude alla decisione considerata un passo nella giusta direzione, ma intravedono un segnale di debolezza da parte degli Stati Uniti. La maggioranza delle Ong impegnate nel conflitto ha espresso infatti tramite comunicati stampa l’opinione che sarebbe stato preferibile aiutare Gaza facendo pressioni molto più forti sul governo di Benjamin Netanyahu affinché aprisse altri varchi al confine per consentire al trasporto su gomma di aumentare la capacità di affrontare l’emergenza umanitaria.

 

Francesco Sannicandro

“Il riciclo della plastica è una truffa”, la denuncia del Center for Climate Integrity

0
Tempo di lettura: 5 minuti

(Adnkronos) – E se il riciclo della plastica fosse uno specchietto per le allodole? Questa è la tesi dell’associazione statunitense Center for Climate Integrity, secondo cui questa pratica, fondamentale nell’ambito della transizione, sarebbe una “frode”.  L’indagine si riferisce agli Usa e molti osservatori sono critici sulle conclusioni del Center for Climate Integrity.  “Alla base della crisi dei rifiuti di plastica – afferma Cci – c’è una campagna decennale di frodi e inganni sulla riciclabilità della plastica. Nonostante sappiano da tempo che il riciclo della plastica non è né tecnicamente né economicamente sostenibile, le aziende petrolchimiche – da sole e attraverso le loro associazioni di categoria e gruppi di facciata – si sono impegnate in campagne di marketing e di educazione pubblica fraudolente, volte a ingannare il pubblico sulla fattibilità del riciclo della plastica come soluzione ai rifiuti plastici”. In effetti, negli Stati Uniti il tasso di riciclaggio della plastica era appena il 5%-6% nel 2021.  Secondo Icc, il problema è stato nascosto inducendo in errore i consumatori. La confusione deriverebbe da diversi fattori, in primis i simboli di riciclo utilizzati sui prodotti in plastica. La Society of the Plastics Industry (Spi) ha introdotto i Codici di Identificazione delle Resine nel 1988, i famosi numeri all’interno di un triangolo e con le frecce, un simbolo ampiamente riconosciuto come indicativo della riciclabilità. Tuttavia, questi simboli hanno fuorviato i consumatori, facendo credere che i contenitori in plastica siano composti di materiale riciclato o che siano riciclabili, il che non è sempre vero. Il sistema Ric era stato concepito per semplificare la separazione delle fonti etichettando i contenitori con la loro composizione materiale. Tuttavia, la tendenza a realizzare contenitori con diversi materiali ha reso poco pratiche queste indicazioni. Cci denuncia che la National Recycling Coalition, la no profit statunitense che si occupa di riciclo, ha cercato di affrontare la mancanza di chiarezza nei codici ma ha scoperto che la Society of the Plastics Industry non era interessata a intervenire.
Ma per gli autori del report l’inganno dei consumatori va ben oltre le etichette. Vi sarebbe, infatti, una incomprensione di fondo: a differenza di quanto comunicato, la maggior parte delle plastiche è difficile da riciclare a causa della loro struttura molecolare, che si degrada durante la fabbricazione iniziale, l’invecchiamento e qualsiasi processo di recupero. Una degradazione che porta la plastica riciclata a costare di più nonostante la minore qualità rispetto alla resini vergini. Tutto ciò si traduce in una mancanza d’interesse da parte dei produttori nell’acquisto di resine riciclate, il che giustificherebbe il bassissimo tasso di riciclo in Usa. Nel 1991 l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha concluso che “sembra che attualmente solo due tipi possano essere considerati per la trasformazione in oggetti di alta qualità, il Pet e l’Hdpe”, in particolare quelli provenienti dalle bottiglie. “Questo rimane vero più di 30 anni dopo”, afferma il report. Per gli autori, “le pubblicità del settore, sponsorizzate da singole aziende petrolchimiche o da gruppi di facciata, hanno normalizzato l’idea che la plastica possa essere riciclata tra i consumatori e i politici. Molti di questi annunci confondono in modo fuorviante il successo iniziale e limitato del riciclaggio di Pet e Hdpe con il riciclaggio della plastica in generale”. La confusione dei consumatori sul riciclo della plastica sarebbe stata alimentata dalla promozione dell’incenerimento e della discarica come soluzioni iniziali dall’industria, seguite dal tentativo di spostare l’attenzione sul riciclo come risposta alle preoccupazioni del pubblico e alla pressione regolamentare. Volendo ordinare le cause che, secondo l’associazione, rendono inefficace il sistema di riciclaggio della plastica: – Inganno dei consumatori; – difficoltà nel riciclare le plastiche per: la loro struttura molecolare, l’utilizzo di più materiali insieme, della mancanza di un mercato per le plastiche riciclate; – il costo più alto della materia prima seconda rispetto a quella vergine; – la degradazione dei polimeri durante il riciclo della plastica e l’aggiunta di additivi che ne limitano la riciclabilità. Che il riciclo di plastica sia più complesso di quanto sembri era stato già dimostrato da Lego. Nel giugno 2021 l’azienda danese, leader mondiale nella produzione di giocattoli, aveva annunciato di voler produrre i suoi mattoncini colorati usando la plastica delle bottiglie. Da quel momento, Lego ha investito 400 milioni di dollari nel progetto di ricerca puntando sul Pet (polietilentereftalato) riciclato anche noto come Rpet (Recycled Pet). Fino alla triste constatazione: non esiste “un materiale magico” che dia le prestazioni sperate, come ha dichiarato Christiansen al Financial Times. Il Pet avrebbe dovuto sostituire l’attuale materiale utilizzato per la produzione dei mattoncini, ovvero l’Abs (acrilonitrile butadiene stirene), che è a base di petrolio. Dopo anni di studi, Lego ha rinunciato a usare la plastica riciclata perché Il Pet riciclato si è dimostrato meno efficace dell’Abs sia sotto il profilo della performance tecnica, sia (a sorpresa) sotto il profilo delle emissioni. “È come cercare di fare una bici di legno anziché di acciaio”, ha dichiarato il capo del dipartimento che si occupa di sostenibilità ambientale Tim Brooks.  Non solo: è anche emerso che il Pet riciclato avesse una resistenza peggiore di quello “originale” comportando seri rischi di economia circolare, in contrasto con l’Sdg 12 dell’Agenda delle Nazioni Unite che incentiva la lunga vita e il riutilizzo dei beni per ridurre i rifiuti.  A fare chiarezza sulla diffusione del riciclo di plastica è intervenuta l’Ocse con un report del 2022. Da una parte si attesta che negli ultimi 30 anni il consumo di plastica è quadruplicato, dall’altra che la produzione di plastiche riciclate, dette anche secondarie, è più che quadruplicato. Nonostante il riciclo sia aumentato a un ritmo più veloce della nuova produzione, nel 2019 rappresentava appena il 6% della produzione totale di plastica.  Restringendo l’indagine, dal 2000 al 2019 la produzione di plastica è più che raddoppiata ma solo il 9% viene riciclato con successo, registra l’Ocse che denuncia: “Mentre l’aumento della popolazione e dei redditi determina una crescita inarrestabile della quantità di plastica utilizzata e gettata via, le politiche per frenare la sua dispersione nell’ambiente sono insufficienti”. Secondo un recente studio del Jrc (Joint Research Centre) della Commissione europea, in Ue viene riciclato meno di un quinto della plastica , il 16,6% di tutta la plastica utilizzata nel territorio comunitario. Un altro dato del rapporto indica con chiarezza dove intervenire per invertire un trend disallineato con il piano e l’impegno green dell’Unione: il 70% del totale dei rifiuti in plastica inviati al riciclo proviene dal settore degli imballaggi. Una concentrazione che ha portato l’Unione a intervenire in maniera specifica con il regolamento imballaggi, ampiamente criticato dalla politica italiana. A incidere negativamente sul tasso di riciclo europeo è l’esportazione dei rifiuti all’estero, dove non si ha alcuna garanzia sul destino della plastica: “Una così piccola percentuale di riciclaggio di plastica in Europa implica grosse perdite sia per l’economia che per l’ambiente. – spiega lo stesso Parlamento Ue in un dossier – Si stima che il 95% del valore dei materiali per imballaggio di plastica si perda nell’economia dopo un ciclo di primo utilizzo molto breve”.  In Europa il modo più usato per smaltire i rifiuti di plastica è la termovalorizzazione, seguita solo al secondo posto dal riciclaggio. Il 25% circa dei rifiuti in plastica generati viene smaltito in discarica, mentre metà della plastica raccolta per il riciclaggio viene esportata al di fuori dei confini europei.  È ancora il Parlamento europeo a spiegare perché l’Ue esporti plastica all’estero: mancanza di strutture, di tecnologia e di risorse finanziarie adeguate a trattare localmente i rifiuti. Una situazione che, nel 2020, ha portato le esportazioni di rifiuti europei verso Paesi terzi a quota 32,7 milioni di tonnellate. La maggior parte dei rifiuti è costituita da rottami di metalli ferrosi e non ferrosi, nonché da rifiuti di carta, plastica, tessili e vetro e va principalmente in Turchia, India ed Egitto. In passato una fetta significativa dei rifiuti di plastica esportati veniva spedita in Cina, ma è probabile che il blocco all’importazione dei rifiuti di plastica imposto dal governo di Xi Jinping contribuisca a un ulteriore diminuzione delle esportazioni. Il che non è detto che sia un bene: in assenza di strutture e investimenti ad hoc, il rischio è che aumentino l’incenerimento e la messa in discarica dei rifiuti di plastica in Europa, come spiega il Parlamento europeo. —sostenibilita/rifiutiwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

La parità di genere fa crescere un Paese

Tempo di lettura: 5 minuti ֎Nel campo dell’istruzione, dove le donne superano gli uomini da anni, la mancanza di donne nelle discipline Stem (Scienza Tecnologia Ingegneria Matematica) è diventata critica. Oggi in Europa solo il […]

Non puoi leggere tutto l'articolo perché non sei un utente registrato!

Registrati oppure esegui il login.

La Norvegia ha dato l’ok a smaltire i rifiuti minerari nei fiordi

0
Tempo di lettura: 4 minuti

(Adnkronos) – Persino la Norvegia, a lungo baluardo della sostenibilità ambientale, mostra il fianco a ciò che sostenibile non è. Dopo una controversia legale durata 15 anni, infatti, il tribunale ha autorizzato la società Nordic Mining a smaltire 170 milioni di tonnellate di rifiuti minerari nel fiordo di Førde, nel sud-ovest norvegese. Questa decisione ha suscitato molte critiche e preoccupazioni per l’impatto che potrebbe avere sulla biodiversità e sulla qualità dell’acqua del fiordo. Da baluardo a triste esempio dato che la Norvegia è anche il primo Paese al mondo ad autorizzare l’estrazione dei minerali dai fondali marini, una pratica considerata altamente dannosa per l’ambiente. Sull’altro piatto della bilancia proprio la transizione energetica, dato che l’estrazione serve ad ottenere litio, scandio e cobalto, minerali preziosi per diffondere l’energia elettrica, a discapito dei carbon fossili. Un equilibrio, dunque, molto difficile da trovare, dato che l’estrazione mineraria potrebbe comportare la distruzione di gran parte dei fondali su cui viene fatta. Tornando allo smaltimento dei rifiuti delle estrazioni nei fiordi, questa ipotesi era stata fortemente contrastata dalle due organizzazioni ambientaliste Naturvernforbund e Natur og Ungdom. Al termine della causa, che hanno perso, i due enti sono stati condannate a pagare spese legali per un totale di circa 130mila euro. Ci sarebbe anche la possibilità di ricorrere in appello, ma sia Naturvernforbund che Natur og Ungdom affermano di avere pochi soldi per continuare la causa, specie dopo la condanna a questa ingente spesa legale. Oltre la Norvegia ci sono solo altri due paesi che concedono ancora nuove licenze per lo smaltimento dei rifiuti in mare: sono la Papua Nuova Guinea e la Turchia.
La società Nordic Mining estrarrà granato, un minerale utilizzato come abrasivo, e rutilo, un minerale composto da biossido di titanio, utilizzato in vernici, cosmetici e impianti medici. George Huse, dell’Istituto norvegese di ricerca marina, ha sottolineato che il fiordo di Førde è un importante sito di riproduzione per il merluzzo, oltre che una rotta di migrazione per i salmoni attraverso quattro fiumi. Secondo lo scienziato, c’è il rischio che microparticelle finiscano disperse su una più ampia superficie di mare. Che la pratica di scaricare i rifiuti minerari non sia sostenibile, ma dannosa per l’ambiente non viene nascosto dagli esponenti politici. Un portavoce del governo norvegese ha dichiarato che esiste la consapevolezza che si tratta di una pratica dannosa per l’ambiente, ma che “al momento non esistono alternative per lo stoccaggio di tali rifiuti”. I rappresentanti politici norvegesi hanno espresso opinioni diverse sulle emissioni delle estrazioni dei minerali nel fiordo. Alcuni hanno sostenuto il progetto della società mineraria Nordic Mining, una zona di grande valore naturalistico e patrimonio dell’Unesco. Altri hanno criticato la decisione del governo di approvare il progetto, sostenendo che violi la Costituzione norvegese, che garantisce il diritto a un ambiente sano, e l’accordo di Parigi sul clima, che richiede la riduzione delle emissioni inquinanti.  La decisione di consentire lo scarico dei rifiuti minerari nei fiordi appare in contrasto con la vocazione ecologica della Norvegia, che rischia di compromettere il suo patrimonio naturale e la sua reputazione internazionale nel campo. La Norvegia, infatti, è un Paese che ha fatto della sostenibilità ambientale uno dei suoi punti di forza: – è leader mondiale per ricchezza pro capite e al secondo posto per capacità di gestire la propria ricchezza in modo sostenibile; – ha ottenuto la certificazione di “destinazione turistica sostenibile” per diverse località, che offrono ai visitatori esperienze a basso impatto ambientale e a favore delle comunità locali; – ha anche sviluppato progetti innovativi per il monitoraggio e la protezione dell’ambiente, come il progetto SENSIBILE, che prevede l’uso di sensori biodegradabili per il controllo dei parametri ambientali negli edifici. Alcuni norvegesi, contrari all’ipotesi di far scaricare i rifiuti minerari nei fiordi,hanno proposto di limitare la circolazione navale nei fiordi solo alle navi elettriche, per ridurre l’impatto ambientale del trasporto dei minerali. Il dibattito è ancora aperto e coinvolge vari settori della società norvegese. In tal senso va Sea Zero, una nave ecologica a consumi ridotti e zero emissioni lanciato dalla compagnia di navigazione norvegese Hurtigruten. Il progetto, annunciato la scorsa estate, prevede un’alimentazione elettrica tramite pacchi di batterie da 60 MW/ora ricaricabili durante le soste nei porti. La caratteristica principale sono le tre vele retrattili con pannelli solari integrati, ricoperti da 1.500 metri quadri di celle fotovoltaiche. Con 500 posti disponibili, Hurtigruten annuncia che Sea Zero sarà pronta a salpare nel 2030.  Sea Zero si intreccia con un altro filone stimolante: come l’Intelligenza Artificiale può aiutare il progresso sostenibile. Le manovre del natante, infatti, saranno coadiuvate da un assistente virtuale animato da intelligenza artificiale. “L’IA può raccogliere un’enorme quantità di dati per apprendere qual è il modo più efficiente e sicuro per andare e tornare dal porto. Sarà un utile aiuto per i navigatori e può migliorare il modo in cui le navi attraccano in caso di maltempo e ridurre il numero di cancellazioni”, spiega l’azienda in una nota stampa. Un altro aspetto costruttivo di questo esempio norvegese è intendere la sostenibilità non solo come transizione energetica, ma anche come approccio mentale e produttivo. Per questo Sea Zero verrà dotata di lubrificazione ad aria sotto la chiglia e il rivestimento dello scafo sarà in materiali ultramoderni con pulizia proattiva, per ridurre la resistenza in acqua. Tutti elementi che consentiranno di “usare meno energia, che è un punto chiave del progetto”, come ha spiegato afferma il project manager Trond Johnsen dell’istituto di ricerca Sintef, sezione ‘Ocean’.  In un Paese isolare come la Norvegia, la sostenibilità passa soprattutto dalla salute del mare. Sullo stato delle acque, incide pesantemente l’attività delle navi da crociera che ogni giorno inquinano 20 volte di più di tutte le auto che ogni anno circolano sulle strade dell’Unione (dati Transport&Environment).  Per questo, l’ok allo scarico di rifiuti minerari nei fiordi ha sollevato dubbi e polemiche.  —sostenibilitawebinfo@adnkronos.com (Web Info)